Piccoli particolari

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Squilla il cellulare.
«Oi»
«Oi»
«Come stai?»
«No comment»
«Ma come “no comment”?»
«Eh, davvero, no comment»
«Fammi indovinare: ti girano i coglioni»
«Mamma mia lascia stare»
«Figurati se non ti conosco bene. Dai, che hai?»
«Ma che vuoi che abbia? Niente. Evidentemente non mi sta mai bene un cazzo»
«Dai rincoglionito, dimmi. Che hai?»
«Ma niente, che ho? Mi girano le palle che devo essere sempre io quello che corre dietro alla gente, che cerca di mettere le pezze per gli errori degli altri, che si alza la mattina già con l’ansia»
«Ma tu ti alzi sempre con l’ansia»
«Eh, meglio ancora»
«Dai scemo rallenta, non mi ci fai capire niente così»
«MI                                       SONO                                   ROTTO                                 I                                              COGLIONI»
«Ecco, perfetto, chiarissimo»
«E passa le ore allo specchio perché non ti piaci e speri che da un momento all’altro possa cambiare qualcosa, allenati tutti i giorni fino a farti venire la nausea, stai attento a mangiare, cerca di apparire forte davanti agli altri, oh ma vaffanculo»
«Ollé!»
Prendo fiato. Sento lei che attende dall’altra parte della cornetta.
«Calmato?»
«No»
«Vai, continua»
«Certe volte vorrei essere nato bullo. Non mi vergogno ad ammetterlo. Almeno la gente mi avrebbe rispettato, nocche spappolate, una croce tatuata in fronte, la fedina penale sporca e via, che tanto non me ne sarebbe fregato un cazzo»
«Ma non avresti avuto me. Anzi, probabilmente mi saresti stato sul cazzo».
Silenzio.
«Noi facciamo parte dei buoni, scemo. Io non voglio un cattivone a proteggermi»
«Tu non hai bisogno di essere protetta»
«Tutti hanno bisogno di essere protetti. È un bisogno innato, ce l’abbiamo nel sangue».
Silenzio. Mi calmo.
«Comunque ho visto ieri che la mia ex si è sposata»
«Quella che ti ha trattato di merda?»
«Se»
«Pensa che sfiga che si è preso il marito».
Rido.
«Non è ora di dimenticarselo ‘sto passato, ciccio?» domanda. Già, non è ora di dimenticarselo ‘sto passato, “ciccio”?
«Spiegami come si fa. Pagherei per svegliarmi la mattina con meno rancore e rabbia repressa»
«Non so come si fa, funziona come con tutte le cose secondo me: basta non pensarci»
«Eh, la fai facile tu»
«No, in realtà è difficilissimo. Però credo sia fondamentale rendersi conto di essere nel presente, che ormai il male che ci hanno fatto è passato, andato. Dai, non cerchiamo vendetta noi, siamo i buoni»
«Quindi dici che cerchiamo giustizia?»
«Nemmeno»
«E allora che cerchiamo?»
«Serenità».
Serenità. Resto un attimo in silenzio, mentre peso il potere di quella parola: serenità.
«Ci sei?» chiede
«Sì» rispondo
«Fottitene. Amen. Auguri e figli maschi»
«Ma guarda che mica mi manca eh»
«Ma lo so scemo, ti conosco. E’ questo il punto: ti conosco troppo bene»
«Cioè?»
«Cioè so che dai importanza a tutto, soprattutto alle piccole cose, ai piccoli particolari»
«A proposito di piccoli particolari»
«Eh»
«Quando sono andato a Milano ho fatto caso a una cosa durante la visita al Duomo»
«Racconta»
«Era pieno di piccoli particolari. Ogni cosa. Le statue, le torri, anche gli scalini, tutto scolpito con cura»
«E questo cosa ti ha fatto capire?»
«Che tutto è importante affinché qualcosa venga bene. Anche quella più piccola accortezza che magari nessuno noterà».
Improvvisamente l’illuminazione.
«Ecco perché mi incazzo per tutto» dico. «Perché ci tengo, perché fa parte del mio carattere. Sono piccoli particolari: incazzarsi per la mancanza di accortezza che la gente ha verso le piccole cose. Ecco, mi incazzo per questo»
«Ha senso» dice lei
«Mi incazzo perché se tutti facessero attenzione alle piccole cose, ai piccoli particolari, tutto sarebbe migliore. Più bello, soprattutto, ma più efficiente, meno doloroso»
«A che piccoli particolari ti riferisci?»
«Ad ogni cosa. Ai sorrisi, agli abbracci, ai ‘ti voglio bene’, ai ‘come stai?’ porca di quella puttana»
«Giusto, porca di quella puttana!» fa coro lei e ride, ride di gusto.
«Che ridi?»
«Rido perché sei puro, pulito, trasparente. Un bambino»
«Odio essere visto come un bambino, lo sai»
«Sì, tu vorresti esser visto come un supereroe. Uno che mena, uno forte, duro, incazzato col mondo»
«Più o meno»
«E lo sei. Sei forte. Anzi, sai cosa? Non sei solo forte, hai anche coraggio. Tanto»
«Tu dici?»
«No, non dico. Lo so»
«Mh, speriamo»
«Tanto lo so che non mi credi»
«Ti credo. Ci provo. Provo a crederti»
«Sforzati…»
«Promesso. Oh, comunque ho fatto un salto alla mostra di Harry Potter, ti ho comprato una cosa»
«Serio?»
«Sì. Gelatine Tuttigusti+1»
«Mio Dio, ti amo»
«Eh lo so, lo so, so farmi volere bene. Se ci sei oggi ci vediamo e te le do»
«Certo, piccolo dolce Grifondoro. E magari una sera ci organizziamo e ci spariamo tutta la saga»
«Buona idea, anche se dovrò lottare con i ricordi dell’ansia che avevo da ragazzino quando avevo il terrore di essere un Babbano condannato a veder partire mio fratello e qualche mio amico per Hogwarts dove sarebbero diventati Maghi potentissimi».
Ride.
«Eri un macello anche da bambino. Proprio non riesci a vederti protagonista per una buona volta, eh? Perché non potresti essere tu l’eroe che ribalta la situazione? Il Mago che sconfigge il male? Perché sempre gli altri?». Silenzio. Ci penso.
«Domanda senza risposta, baby» butto lì.
«Figurarsi» dice lei.
«Va beh, allora quando ci vediamo?»
«Anche adesso, se mi apri»
«Eh?»
«Sono sotto casa tua. Lo so, sono una ninja. Se scendi mi dai le Gelatine e io ti do il cornetto integrale che ti ho portato»
«Ma te la sei fatta a piedi?»
«Sì, passeggiatina mattutina»
«Ma sta piovendo, rincoglionita»
«Lo sai che le faccio volentieri queste cose per te, stronzo»
«Perché?»
«Perché credo sia importante dare importanza ai piccoli particolari».
SBEM. Steso.
«Oh, mi apri? Diluvia!»
«Arrivo»
«Oh»
«Eh»
«Basta stare giù, ok? Non hai bisogno di essere un Mago per essere un eroe»
«Spero davvero tu abbia ragione»
«Oh hai rotto le palle, promettimi che ci penserai ogni volta che starai giù. Promettimelo, poi mi apri, sennò non salgo»
«Va bene, va bene. Promesso, ok? Promesso!»
«E bravo che sei. Ora puoi aprire»
«Apro»
«Apri!».
Sorrido.  Lezione compresa.

Andrea Abbafati

In ritardo

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Squilla il cellulare. È lei. Accetto la chiamata, poso l’apparecchio all’orecchio e sto zitto.
«Oh» dice
«Oh» rispondo
«Beh?»
«“Beh” che?»
«Ma come “beh che”?»
«Eh, beh che?»
«Sei sveglio?»
«Ma certo che sono sveglio, ti sto parlando»
«Sì, nel senso, sei sveglio? Cioè, sei sveglio da un po’ o ti ho svegliato io?»
«Mi sono svegliato poco fa, tranquilla, non mi hai svegliato»
«Ah. Peccato»
«Ma come peccato?»
«Hai dormito dodici ore. Sai che spasso sarebbe stato svegliarti? Rincoglionito al massimo»
«Vaffanculo»
«Ah, ci siamo svegliati male, Oxford?»
«Ho dormito dodici ore perché sono a riposo e ieri ne ho passate ventiquattro sveglio»
«Lo so, cretino. Ti stavo prendendo in giro»
«Ok»
«Ok».
Silenzio. Sento che prende fiato dall’altra parte della cornetta

«Rosicone come pochi» esclama all’improvviso
«Non sto rosicando!»
«No, assolutamente»
«No infatti, assolutamente»
«Bene allora, meglio»
«Sì, meglio».
Di nuovo silenzio.

«Rosicone potentissimo»
«Oooooh Madonna, ma che è oggi?»
«Oggi è giovedì, signorino, ed è precisamente mezzogiorno»
«Lo so che giorno è, so anche che ore sono»
«Bene»
«Ancora con ‘sto “bene”?»
«Cosa vuoi che ti dica? Se vuoi tolgo il “bene” e dico altro»
«Ecco, sì, di’ altro»
«Perfetto, allora dico: sei in ritardo, coglione, dovevamo vederci alle dieci e trenta. Va meglio così?».

Porca puttana.

«Porca puttana»
«Eh, esattamente»
«Scusa, me ne sono totalmente dimenticato. Porca puttana»
«Dove sei ora?»
«A casa. Precisamente sul letto, guardavo il vuoto fino a qualche secondo fa ma mi sto già spogliando, mi lavo, mi vesto e sono da te»
«Dobbiamo vederci in piazza»
«Eh, lo so, tu sei già lì no?».
Silenzio.

«Oh? Tu sei in piazza, no?»
«No… sono a casa»
«Ah, va beh immagino tu sia tornata a casa quando hai capito che non sarei arrivato. Giusto»
«No, sono a casa. Sono ancora a casa. Non sono proprio uscita».
Silenzio. Capisco.

«Ho paura di chiederti perché» dico
«Eh…»
«Perché?»
«Ma che ti importa del perché? Meglio no? Mi vieni a prendere e andiamo insieme!»
«Perché?» insisto.
Silenzio, di nuovo. Sento che trattiene il respiro.

«Perché sapevo che avresti tardato. Di parecchio. Come sempre. Certo, non pensavo di dover aspettare un’ora e mezza, son sincera».
Sbem. Steso.

«Scusa», «scusa», all’unisono, due scuse.
«No, scusa tu», «no, scusa tu», all’unisono, di nuovo due scuse.

«Senti, ti chiedo scusa io del ritardo e dei ritardi passati. T’ho detto, mi lavo, mi vesto e corro da te, ti prendo e andiamo insieme». Silenzio. «Ti sei offeso?» mi domanda, «ma di che?» rispondo, «hai semplicemente detto la verità. Faccio sempre ritardo. Sempre oh, capitasse una volta che riesco a calcolare i tempi». Silenzio. Troppo silenzio. Se la conosco bene sta preparando una battuta delle sue. «Beh, a letto i tempi li sai calcolare benissimo. Mai lamentata». Appunto. «Ma come te ne esci?» chiedo, «dai, scemo, stavo scherzando, era una battutina per scaldare ‘sto gelo che si è creato», «niente gelo, per carità, hai ragione. Un’ora e mezzo di ritardo è imperdonabile. Oh, metto vivavoce, mi do una sciacquata», «Ok».

Faccia, mani, piedi, collo e tutto. Lavo i denti, indosso qualcosa velocemente poi mi reco in cucina. Mi accorgo della cazzata fatta e impreco. Lei sente.

«Oh»
«Eh»
«Che è successo? Sbattuto il mignolo?»
«Macché. Mi sono lavato i denti prima di fare colazione»
«Senza parole»
«Oh senti, questa è la fretta. Mi stai mettendo pressione»
«Ah! Io ti metto pressione adesso?»
«Ma dai, sei lì al telefono che canticchi quel tormentone maledetto che odio! Guarda che sento tutto eh!»
«Oh, se vuoi attacco senza problemi»
«No macché, mi fa star bene sentirti presente».
Silenzio.

«L’hai detto» dice lei
«Sì, l’ho detto» ammetto
«Ma allora non ti sei svegliato col rodimento di palle! Che teneroso che sei»
«Eh, lo so, sono bravo a farmi amare».
Apro il frigo e scarto il primo yogurt che trovo, poi metto a fare il caffè mentre il suo respiro dall’altro capo del telefono mi rassicura. «Senti piuttosto, come è andata ieri la cena con gli amici?» domanda lei, «tutto ok. Stavamo in un bel posto in montagna, a casa di un amico, ti sarebbe piaciuto», «cosa? Il posto o l’amico?» domanda lei, io sto zitto. «Sto scherzando, deficiente», «lo so, simpatia. Comunque mi sei mancata. Abbiamo fatto mezzanotte, volevo chiamarti ma mi avevi detto che avevi sonno, quindi ho lasciato stare», «lo sai che puoi chiamarmi quando vuoi, vero?», «lo so, ma so anche come diventi quando vieni svegliata mentre dormi beatamente». Silenzio, la sento ridere silenziosamente, «hai ragione» dice. «Comunque ho fatto una foto al panorama che si vedeva dalla piscina. Tra poco te la mando. Sai cosa? Ci vediamo sempre, ma ieri mi sei proprio mancata», la sento che trattiene forzatamente una risatina orgogliosa, «mi mancava vederti, poter contare su di te e poi, oh, mi mancava anche bere con te, ubriacarci insieme e buttarci in piscina come due coglioni» e qui scoppia a ridere di gusto, «mai fatto nulla del genere, nego tutto!» esclama divertita. Finisco lo yogurt, verso il caffè nella tazza e lo bevo senza zucchero, tutto d’un fiato, poi mi ricordo di una cosa: «oh, dopo devo farti sentire un pezzo nuovo», «ah sì? Di chi è?», «degli 883, ultimamente la loro discografia gira spesso nello stereo della macchina», «aspè, ma gli 883 non si sono sciolti tipo nel 2002?», «sì mi pare di sì», «embè? Un pezzo “nuovo”?» ride, «e va beh, io ieri l’ho ascoltato per la prima volta, per me è nuovo» e scoppia a ridere di nuovo, stavolta seguita di cuore da me, «C-O-G-L-I-O-N-E-E-E-E!» urla tra una risata e l’altra e io vorrei tanto baciarla, perché mi fa stare bene. «Che poi, 883. Periodo pesante?», «Pesantino. Alterno 883 a Battisti e Zucchero, per farti capire», «Madonna» esclama lei, stupita.

«Oh, io ho fatto, sto per partire»
«Oh, mi raccomando, niente ritardo oggi eh»
«Sei veramente stronza. Ti piace rigirare il coltello nella piaga eh?»
«Non sai quanto. Godo nel farlo!»
«Quasi quasi ti lascio a piedi»
«Provaci. Devi solo provarci, ti raggiungo e ti prendo a calci nel»
«Va bene ho capito» la blocco io, «ti vengo a prendere»
«Bravo signorino. Oh, mi raccomando, t’aspetto. Testa leggera eh»
«Ci provo belle’, ci provo»
«Vedi di riuscirci. E sbrigati che devi farmi vedere la foto e sentire la canzone. Ma vai piano»
«“Sbrigati ma vai piano”, certo»
«A tra poco, scemo»
«Arrivo, scema».

Parlare del nulla, sentirsi meno soli, ridere di gusto, che tutto va una merda nel mondo e io mi prendo cura del mio respiro e del suo. Dei respiri di chi mi vuole bene. Chiudo tutto. Spengo tutto. M’aspetta lei. Scusate, non aspettatemi, anche oggi come sempre sono in ritardo.

Andrea Abbafati

Io sono Batman

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Un pensiero. Accosto, metto le quattro frecce, scendo e mi guardo intorno. Questa strada non la conosco, eppure la faccio tutti i giorni. C’è qualcosa di strano. Sento di non aver messo tutti i pezzi del puzzle al proprio posto, come invece credevo. Giorno di riposo. Ieri sono stato ad un concerto con il mio gruppo di amici, quelli che speri di avere sempre al tuo fianco soprattutto quando stai bene, per condividere con loro la tua felicità. Mi guardo intorno: sono in aperta campagna, in mezzo ad una stradina poco frequentata, e sto ripensando al concerto di ieri. Eravamo tanti, ballavamo e cantavamo sotto il diluvio universale con i lampi che in lontananza illuminavano Roma. Stavamo facendo quello che in quel momento ci faceva stare bene, o almeno a me faceva stare benissimo. Era tutto perfetto, fino a che un pensiero come sempre mi ha colpito mentre saltavo come un matto: “sei piccolo”. Una voce nella testa, così dal nulla: “sei piccolo”. Sbem. Distrutto. Anche il semplice saltare e spegnere la testa ormai risultava difficile, inutile. Come quando ascolti una canzone a palla e qualcuno ti dice che ascolti musica di merda… le cose sono due: o ti incazzi e lo mandi a quel paese o te ne sbatti le palle e ascolti e canti la canzone a volume ancora più alto. Per un attimo avevo deciso per la seconda opzione: ballare, cantare sotto la pioggia e vaffanculo. Invece mi sono fermato nel bel mezzo del concerto, completamente bagnato con tutti intorno a me che pogavano e si spingevano come dannati. Ho cominciato a pensare, mentre il cantante cantava la mia canzone preferita, domandandomi se qualcun altro lì vicino a me stesse pensando la stessa cosa che stavo pensando io.
Ora sono qui, in mezzo ad una stradina di campagna con l’auto accostata che penso e mi mordo le labbra, incazzato. Ma possibile che non riesco nemmeno a godermi un cazzo di giorno di riposo o un concerto? Penso a chiamare lei, ma no. Stavolta è impossibile, non potrebbe rispondermi. Stavolta me la gestisco da solo. Stringo i pugni, guardo in alto e urlo: «ma perché cazzo non potevo nascere Re Artù?». Silenzio. L’ho detto davvero… ma dovete capirmi: ho ventisette anni, indosso una maglietta che ormai mi sta larga e dei pantaloni corti che sono gli stessi che avevo ieri al concerto, ovviamente lavati. Ho capelli che non mi piacciono, un fisico che non mi piace mai, che una volta è troppo magro e un’altra è troppo massiccio e un naso che sembra rotto, ma soprattutto non ho super poteri, né un destino meraviglioso che mi attende. Cioè, non ho nessuna cazzo di spada nella roccia che mi aspetta da qualche parte, capito? Non pensate anche voi sia una cosa ingiusta? Oh, andrebbe bene anche un martello magico, tipo quello di Thor. O anche un super potere genetico, tipo Superman. Invece no. Non ho neanche una velocità supersonica, faccio sempre ritardo. Non ho tatuaggi, ho paura a farmeli, il ‘per sempre’ mi spaventa. Sono stonato, faccio movimenti goffi per ogni azione e non so ballare. Mi affeziono terribilmente, tanto da essere geloso di chiunque. Dai, come non essere compatito se mi ritrovo in un giorno a caso ad urlare in mezzo ad una stradina a caso incazzato con un dio a caso? Che poi giuro che c’ho provato spesso a somigliare ai miei idoli, o quantomeno agli idoli degli altri. Palestra, corsa, proteine, addominali e piegamenti, ‘sticazzi’ tatuato nell’anima, perché gira voce che il tipo che se ne sbatte di tutto e tutti piaccia. Ma niente… oh, io non sono così, quindi eccomi qui ad urlare da solo in mezzo alla campagna chiedendo a chi di dovere per quale motivo non mi abbia fatto nascere Re Artù. O Thor. O Superman. O anche un supereroe di serie C, non è che avrei disdegnato. Ma qualcuno di figo, qualcuno a cui spetta qualcosa, qualcuno da ammirare e non di cui ridere per le figure di merda che fa.
Pausa. Respiro. Alzo lo sguardo e vedo il cielo limpido che comincia a riempirsi di nuvole.
«Oh» dico, «eh» rispondo, «ma a te Superman t’è sempre stato sul cazzo». Rifletto. «Oh, è vero» ammetto, «mai sopportato. Facile spaccare i culi coi super poteri genetici» puntualizzo. «Appunto» mi dico, «e pure Thor. È praticamente l’unico personaggio cinematografico Marvel che non segui. Quindi, cazzo ti lamenti?». Ho ragione… che mi lamento? E improvvisamente la luce: ho sempre sognato di essere Batman, Robin, Spider-Man che sì, ha i super poteri, ma li ha guadagnati in quanto sfigato cronico. Come me. Ed ecco, finalmente la risposta: ‘sti cazzi. Ma ‘sti cazzi veramente eh… non ho mai avuto la pappetta pronta, ho sempre sgomitato e ho preso cazzotti in faccia per ottenere quello che volevo. Adesso me ne pento? No. Bene, ecco la risposta. Sono Batman, porca vacca. SONO BATMAN! E odio i Superman che hanno già tutto pronto, faccetta bella ripulita, addominali scolpiti, sguardo ammiccante, sorrisetto sicuro. Lotterò per tutta la vita contro la perfezione, perché la perfezione non esiste.
Respiro. Salgo in macchina ma scendo subito. Ho bisogno di sfogarmi e quindi salto, urlo, corro per i prati spaventando le vacche che stanno pascolando. Sono piccolo, ma sto bene. Salto, canto da schifo, ballo e mi slogo una caviglia, corro e mi scoppia il cuore. “Sei piccolo”, lo so. Ma ‘sti cazzi. “E sei anche volgare”, lo so. Ma ‘sti cazzi. “E ce l’hai sempre con tutti, stai sempre incazzato”, vero. Ma ‘sti cazzi.
Corro. Salto. Ballo.
Sono Batman.
Urlo. Canto. Rido.
Sono Batman. Ho la Batmobile.
Torno alla macchina, fiero, orgoglioso, calmo. Ho tutto quello che volevo, tutto. Devo solo sforzarmi un po’ di più, non avendo una spada magica e un mago che mi consiglia. Improvvisamente mi squilla il cellulare. È lei. «Oi? Come va? Che fai?» domanda. “Che fai?”, basta una domanda stupida per farmi stare meglio. Ho tutto. «Tutto bene, tutto alla grande mia dolce Catwoman!» urlo. Silenzio, la sento sospirare, «sei ubriaco, vero?» mi domanda ed io scoppio a ridere. «Non sono ubriaco scema, sono Batman. Non fare domande. Ti butti dal grattacielo con me?» domando, «ma se ci buttiamo ci sfracelliamo, cretino. Non sarebbe meglio essere Superman e Supergirl?», «NO!» la rimprovero, «siamo Batman e Catwoman e usiamo i gadget speciali per atterrare morbidamente» puntualizzo. Silenzio. «Ok, Bruce» dice lei, «ci vediamo stasera e andiamo a liberare Gotham City?» domanda, «certo» rispondo, «ciao scemo» e riattacca.
Ho tutto. Io ho tutto. Sono Batman. Sono Batman!
Salgo in macchina, giro la chiave.
Giro la chiave.
Giro… giro la chiave. Niente, la Batmobile non parte. Scendo, chiudo lo sportello e mi guardo intorno, scocciato, poi improvvisamente eccolo, lo vedo: il Superman di turno che sfreccia come un matto col suo mantello rosso, mi guarda, sorride maligno e soddisfatto e se ne va, lasciandomi lì dove mi ha trovato, da solo, nel mio piccolo.
‘Sticazzi.

Andrea Abbafati

La sindrome del bagnante

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Guardo l’orologio del furgone: segna un’ora avanti, quindi tecnicamente sono le ore precedenti rispetto l’ora segnata sullo schermo. Sono in ritardo, tanto per cambiare. Davanti a me la fila ferma di macchine in attesa che passino i supereroi a due ruote: gara ciclistica in corso, tutto bloccato. Di domenica mattina, sotto il sole cocente nel punto preciso in cui non c’è ombra manco a pagarla.
Ho già dimenticato l’ora ma evito di guardare l’orario sbagliato dello stereo: è una giornata di merda e come tale non ha orari. Lo sanno tutti. Quando una giornata inizia male non ha senso guardare che ora è perché il tempo si ferma e dura più a lungo, non finisce più e il momento del riposo non esiste, quindi tanto vale continuare a non guardare in che fascia oraria del giorno mi trovo.
Ho poche ore di sonno sul groppone e non riposo decentemente da troppo tempo, mi bruciano gli occhi, ho fame e non ho neanche fatto colazione. Ho un giramento di coglioni non indifferente. Da record. Mi guardo attorno sperando si materializzi improvvisamente un qualcosa, una via di fuga, un motivo per togliermi la divisa di dosso e buttarmi a capofitto in qualche avventura senza pensare ad un cazzo. Troppo volgare. A niente. Senza pensare a niente. La fila comincia a districarsi e improvvisamente mi squilla il telefonino.
È lei. Rispondo. «Oh». Silenzio. «Oh» ripete lei. «Beh?» chiedo io, «Che è successo?», «ma che risposta di merda è “oh”? Io ti chiamo e tu mi rispondi “oh”?» dice lei con quel tono magico, poetico e dolce che mi ricorda quei film horror in cui già al primo minuto schiatta qualcuno. È incazzata. Pure lei. «Scusa» mi riprendo subito io, «è che sto fermo in mezzo al traffico, aspetto che i principi in bicicletta decidano chi deve vincere la gara», intanto le auto davanti cominciano a muoversi quindi mi accingo ad avanzare lentamente. «Ah, capito» butta giù lei, «tra quanto stacchi?», «sto tornando ora per partire con il secondo giro, faccio giusto in tempo a prendermi un caffè da qualche parte penso», «ottimo» dice lei, «fermati al prossimo bar, sono dietro di te». SBEM. «Che?» domando io e lo sguardo mi va automaticamente sullo specchietto laterale sinistro e la vedo: lei, che lampeggia come una matta facendo smorfie con la bocca. Mi esplode il cuore. «Avevo bisogno di te, bella mia» sussurro più a me stesso che a lei, «eh? Che hai detto?» chiede lei, «niente… imprecavo contro i ciclisti. Senti appena arriviamo al bar ci fermiamo, ok?», «ok, tesssssoro» urla lei e lo sguardo mi torna allo specchietto e posso guardarla sfoggiare la sua bella lingua rossa con sguardo da smorfiosa.
Finalmente la strada si libera, avanzo per un po’ con lei al seguito, poi svolto a destra e mi fermo davanti ad un piccolo baretto della zona. Parcheggio, scendo e chiudo il furgone, lei è stata più veloce di me e mi aspetta in piedi, poggiata alla sua auto. «Buongiorno scemo!» dice con la grazia di una che riesce in modo tremendamente facile a superare un’incazzatura potente. Mi avvicino e faccio per abbracciarla ma lei mi ferma con una mano sul petto e mi guarda attentamente negli occhi: «stai incazzato nero. E sei stanco» dice scrutandomi attentamente, io sorrido stupito… volevo solo abbracciarla. «Volevo solo abbracciarti» ammetto, «perché devo essere sempre quello incazzato e stanco?» domando e lei risponde immediatamente con un «uff». “Uff”? «Cominciamo davvero con le domande complesse alle undici di mattina senza neanche aver preso un caffè?». Giusto… le undici; l’orologio segnava le dodici meno un quarto, quindi erano le undici meno un quarto, ovviamente quindici minuti dopo sono le undici, logico.
Decido di accantonare la questione “uff” e la accompagno nel bar. Il barista ci chiede cosa vogliamo, lei ordina due caffè, io sto zitto e la guardo. Non ho mai creduto nell’amore, nella bellezza fine a sé stessa, ma lei mi completa. È talmente spontanea, talmente piena di bene che non capisco come facciano gli altri a non innamorarsene.
Mi sta guardando. «Forza. Caffè ordinati, adesso possiamo affrontare i discorsi seri» dice. Comincio. Sono un fiume in piena, sicuramente adesso le dirò tutto quello che mi circola nella testa e nel cuore, cioè «niente». Niente? «Niente?» domanda, «ma come niente? Ti ho guardato imprecare contro i ciclisti quando non sapevi che ti stavo osservando. Sono anche quasi sicura tu ne abbia mandato a fanculo qualcuno… e adesso non hai niente?». Ops. Beccato. Prendo fiato. «Senti, non voglio incazzarmi, ok? Non devo incazzarmi, va bene? Ultimamente mi è stato fatto notare che mi incazzo sempre. Autocontrollo, ecco cosa mi serve. Devo riuscire a gestire la rabbia. Calmarmi. Devo prendere le cose più alla leggera, tutto qua». Silenzio. Arrivano i caffè ma lei sembra non accorgersene: mi guarda. «Quindi non puoi parlarne con me?». Steso. «Ma certo che posso parlarne con te… che c’entra? Solo che adesso volevo provare a calmarmi da solo, ad affrontare la cosa tra me e me ecco, tutto qua». «Mandando a fare in culo i ciclisti» sottolinea lei, «no… no! Non ho mandato a fare in culo nessuno!» mento io ma niente, lei scoppia a ridere. Sbuffo, so già che durerà per molto, prendo il caffè, lo condisco di dolcificante e bevo, lei fa altrettanto con lo zucchero di canna ma aspetta che la risata le passi, poi beve tutto di un sorso.
«Per una volta vorrei sentirmi come Cannavaro nel 2006 quando ha alzato la coppa» butto lì.
Silenzio. Lei posa lentamente la tazzina sul bancone, gli occhi spalancati fissi su di me: «tu» sussurra, «tu che parli di calcio? Ma soprattutto… tu che hai visto i mondiali del 2006?» domanda esterrefatta, «ma che c’entra?» mi giustifico, «non sto parlando di calcio, uno, e due: certo che li ho visti i mondiali. Ho anche festeggiato e per poco non infilzo uno con la bandiera quando Grosso ha segnato il rigore» ammetto sapendo già quale sarà la sua reazione… e infatti, ride. Ride tanto, porta le mani alla bocca e si dondola come una scema. La solita esagerata. «Seguivo ancora il calcio da ragazzino… ma adesso non è questo il discorso, sono serio!» esclamo offeso, cercando di riportare ordine. Lei capisce e mi guarda seria ed interessata: ora ho di nuovo la sua attenzione. «Dicevo, vorrei sentirmi come lui. Come Cannavaro in quel preciso istante. C’hai mai pensato a come devono essersi sentiti gli Azzurri? Secondo me hanno avuto la certezza assoluta di essere riusciti in quello che dovevano fare. Hanno vinto il mondiale, porca puttana. Cannavaro ha sollevato la coppa. S’abbracciavano tutti. L’Italia intera festeggiava con loro. Ecco, per un solo istante vorrei sentirmi così». Lei mi ascolta attenta, io continuo. «E come Grosso. Porca vacca, ma l’hai visto l’autocontrollo di Grosso al rigore decisivo? Io sarei morto. E avrei sicuramente sbagliato». Lei sorride, io mi fermo a pensare. «Non lo so che c’ho. Sono solo contento di poterne parlare con te», «e io sono felice di poterti ascoltare, scemo» risponde lei con un sorriso bellissimo, «e tu potrai essere Cannavaro e Grosso messi assieme ogni volta che vorrai. Ne hai tutte le capacità e soprattutto la grinta. Hai la grinta, cazzo, ma non te ne rendi conto» conclude. La guardo: «ho la sindrome del bagnante» confesso. Mi guarda, ora è confusa, «la sindrome di che?», domanda. «La sindrome del bagnante» ripeto io convinto, poi mi accingo finalmente a spiegare: «ieri sono andato in piscina con gli amici, ricordi? Ecco, tolta l’ansia di mettermi a torso nudo davanti a tutti ma va beh, ‘sta fissa che ho la conosci. Ecco, tolta l’ansia, sai la prima cosa che ho fatto qual è stata?» lei scuote la testa curiosa, «ho guardato il bagnino. Cioè, ho pagato l’entrata della piscina e neanche mi son messo la crema solare che subito ho guardato il bagnino», «e perché?» chiede lei. Mi preparo al peggio: «perché c’ho la sindrome del bagnante, te l’ho detto. Avevo paura di non essere fisicamente alla sua altezza. ‘Sti cazzo di bagnini hanno i fisici da supereroi, e ogni volta che uno va al mare deve subire il confronto. La sindrome del bagnante: sentirsi inferiori a qualcuno in un contesto comune». Finisco di spiegare e resto a guardarla in attesa di una sua risata fragorosa ma lei resta stranamente in silenzio, gli occhi fissi su di me, poi apre leggermente la bocca e dice: «ha senso». SBEM. Proseguo. «Ecco, ho la sindrome del bagnante. In ogni contesto. Si può chiamare anche “sindrome di bassa autostima” se vogliamo, magari rende di più. Mi sento a disagio in mezzo alla gente, perché so che risulterò sempre l’anello debole, quello che non sa e non può risolvere le situazioni. Sarò sempre un comune bagnante, non un bagnino. Sarò il babbano di turno, non il mago che va ad Hogwarts. Sarò sempre il civile che guarda i supereroi salvare il mondo e magari rischia anche di essere schiacciato da un grattacielo che crolla». Finisco di parlare e mi accorgo di avere la bocca allappata quindi ordino un bicchiere d’acqua del rubinetto e pago i due caffè, mentre lei sta zitta a pensare, stavolta con lo sguardo fisso sul pavimento.
Acqua bevuta, conto pagato, lei ancora che guarda per terra, le faccio segno di uscire e mi segue. Appena metto piede fuori mi manca il respiro a causa del caldo che quasi vorrei mandare a fare in culo il lavoro, i ciclisti e tutto il resto e tornare di nuovo nel bar per restarci fino a sera con lei, che adesso mi guarda con quegli occhioni bellissimi e quella bocca che è solo da baciare. Respiro. Sento il suo respiro. Le carezzo i capelli con la mano e sto per baciarla ma lei comincia improvvisamente a parlare, come un fiume in piena: «siamo due Babbani bellissimi che se ne fottono delle scope volanti e vanno in alto anche senza. Due civili che si vogliono bene, che si amano e lottano giorno dopo giorno contro i super cattivi senza avere i super poteri. Siamo due bagnanti che non ci penserebbero due volte se dovessero vedere qualcuno in acqua in difficoltà e correrebbero in soccorso, anche senza saper nuotare», vorrei abbracciarla ma mi impongo di farla finire. Deve dirmi tutto quello che ha dentro, perché solo lei può svoltarmi la giornata. «E sì, tu ti incazzi sempre, ma perché ci tieni. Tieni alla gente, alle cose che fai, ci credi. Quindi oh, incazzati. Fai macello, corri per due, tre ore, prendi a cazzotti il muro, ma non tenerti tutta ‘sta roba dentro perché il mondo perderebbe qualcosa di prezioso». Sbuffo, «il mondo non ha bisogno di uno che si emoziona per quello che fa e che si mette a parlare da solo sul furgone quando sta incazzato. Il mondo ha bisogno di gente che sappia prendere la decisione giusta al momento giusto. Certe volte mi sento in colpa ad emozionarmi per quelle che essenzialmente sono stronzate rispetto ai dolori che in questo preciso stanno affrontando molte persone. Boh. T’ho detto, ho mancanza d’autocontrollo e la sindrome del bagnante e insieme sono terribili. Vedo tutto nero e quando sono arrabbiato faccio i macelli. Devo calmarmi. Ah, c’ho pure la sindrome dell’abbandono se proprio vogliamo dirla tutta. A te capita mai? L’ossessione di essere abbandonati… di essere lasciati soli… la paranoia fissa in testa di essere sostituiti con qualcuno?» le domando, ma lei non risponde, si avvicina e mi bacia. La guardo. Mi guarda. «E questo?» dico. «Questo è il premio per essere quello che sei. Prendilo anche come assicurazione nel caso ti abbandonassi… dovrai ridarmelo. Dovrai riconsegnarmi il bacio. Allora mi bacerai e mi innamorerò nuovamente di te. Perché tu sei così. Sei da amare, scemo». SBEM. «Adesso va’, torna a lavoro, che devi salvare il mondo, bagnante coraggioso» dice sogghignando e dandomi un colpetto sul petto. La guardo, sorrido, poi la stringo forte a me. «Allora è deciso: alieni, zombie, maghi oscuri, ciclisti e bagnini maledetti… niente potrà fermarci. E soprattutto io non t’abbandono, e tu non abbandoni me» dico. Lei scoppia a ridere, mi prende il volto tra le mani e mi guarda dentro, nell’anima, come se avesse la vista a Raggi X di Superman: «mai».

Andrea Abbafati

Ho rovesciato il caffè e ho capito tutto

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«Ci fermiamo un attimo?».
Pausa, silenzio, lei si volta e mi guarda: «certo» risponde e allora ok, ci fermiamo un attimo.
Solita corsetta settimanale in due nel bosco, solo che oggi non ci sto né con la testa, né con il fisico. Lei capisce, in realtà ha già capito da quando siamo partiti. «Era ora» butta lì. La guardo, «”era ora” che?». «Era ora che ti fermassi. Mica sono scema, ti vedo e ti sento: stai a pezzi. Che hai, piccolo rottame che non sei altro?» domanda sorridendo mentre io mi trattengo per non rosicare. «Niente» rispondo, «sono solo stanco. Ci sediamo un attimo?», lei non risponde, si sdraia a terra con le braccia sotto la testa e lo sguardo verso l’alto, io faccio lo stesso, sollevato.
«Hai raggiunto il limite, eh?» dice lei improvvisamente. La guardo, capisco, sospiro: «sì». Ammettere una roba del genere per me sarebbe stato impossibile fino a ieri, poi finalmente ho capito. Ripeto tutto, ma stavolta ad alta voce: «ammettere una roba del genere per me sarebbe stato impossibile fino a ieri, poi finalmente ho capito», lei distoglie lo sguardo dal cielo e mi guarda, «spiega» dice. «Stamattina mi sono fatto un caffè prima di attaccare a lavoro, ero talmente distratto che ad un certo punto ho dato una botta alla tazzina rovesciando tutto» lei sorride, io continuo «non puoi capire le imprecazioni, mie e di mia madre che s’è vista la tovaglia nuova diventare un Pocket Coffee». Pausa. Scoppiamo a ridere entrambi ed eccola finalmente… la leggerezza. Lei riprende fiato con difficoltà, poi finalmente fa la domanda importante: «sì, ma che hai capito?», io scelgo bene le parole per risultare il più delicato possibile: «che non possiamo controllare un cazzo di niente» lei sorride mordendosi le labbra, «t’è caduta la corona, Oxford» dice, poi scoppiamo di nuovo a ridere. Toh, eccola di nuovo la leggerezza. «Dai, quando ci vuole ci vuole» mi giustifico io ma lei subito alza le mani al cielo «ma non sto dicendo niente! Anzi ti prego, continua. Mi piace quando fai il filosofo» e sorride di nuovo guardandomi con quegli occhi che, Dio Santo, vorrei vederla guardarmi per sempre. «Non faccio il filosofo» continuo con difficoltà resistendo alla tentazione di perdermi nel suo sguardo, «faccio il realista. Non possiamo gestire un cazzo della nostra vita. Non possiamo scegliere un cazzo, tutto quello che scegliamo è perché ci viene data la possibilità di sceglierlo. Non vogliamo veramente quello che abbiamo, lo desideriamo solo perché ce lo ritroviamo davanti come unica scelta» e qui mi ferma con una smorfia: «quindi non mi vuoi davvero? Non mi hai scelto, brutto rottame che non sei altro?» domanda delusa ma io la zittisco immediatamente mettendole un dito sulle labbra: «a te ti sceglierei ogni volta tutte le volte in qualsiasi altra vita», lei sorride «non si dice “a te ti”», io sorrido «vedi? Non possiamo neanche scegliere come parlare» e scoppiamo a ridere di nuovo per qualche secondo, poi torno serio: «fino a ieri mi dannavo per ogni cosa. Poi stamattina, il caffè. Ho rovesciato il caffè e ho capito tutto. Devo lasciare andare le cose, le persone, godermi le giornate, staccare ‘sto cazzo di internet» e subito lei mi fa l’eco «“staccare ‘sto cazzo di internet”!» e io continuo «mettere la modalità offline quando riposo, mangiare e bere qualcosa con gli amici ogni tanto e ‘sticazzi della dieta» e lei mi fa nuovamente l’eco «“e ‘sticazzi della dieta”!» e io continuo ancora «smetterla di specchiarmi che tanto non mi piacerò mai, smetterla di preoccuparmi per gli altri, smetterla di chiedere sempre se va bene qualcosa o se sta bene qualcuno. Chiedermi se sto bene io» e di nuovo lei con l’eco «“chiedermi se sto bene io!”» e io che continuo imperterrito «e dire qualche “vaffanculo” ogni tanto, qualche “sticazzi”, staccare la televisione, scrivere tanto, leggere fumetti, libri, riposare quando ho turni pesanti, non pensare sempre e soltanto ad arrivare da qualche parte e ogni tanto pretendere, che porca troia mica devo essere sempre io quello che sta ai comodi degli altri», lei stavolta resta zitta, ha capito che sono serio… io guardo in alto, il cielo è limpido e c’è un sole pieno che ci illumina totalmente. Apro leggermente la bocca e parto: «’sticazzi» e spalanco le braccia facendo cerchi di terra e sollevando polvere su polvere, lei scoppia a ridere, «’sticazzi!» e si alza, «’STICAZZI!» urla a squarciagola, «a noi non ce ne frega niente per oggi, abbiamo chiuso!» e salta da tutte le parti, fa le capriole, imita una scimmia, poi si sdraia nuovamente accanto a me, sudatissima. «Sei fuori forma, cocca» stuzzico io, «’sticazzi!» urlacchia lei. Di nuovo la leggerezza, di nuovo scoppiamo a ridere. Mi siedo, nonostante il sentirmi leggero mi sento strano, non pienamente libero. Lei mi imita, sedendosi al mio fianco e poggiando la testa sulla mia spalla. «Ieri volevo mollare tutto. Ho avuto un attimo di tentazione… volevo mandare a fare in culo tutto e tutti. I progetti, la gente che non mi dava retta e quella che voleva tanto spiegarmi che problemi aveva. Mi sentivo stanco, arrivato, senza più limiti. Lavorare, lavorare, lavorare… per cosa? Dove devo arrivare? Che tanto più sembra che faccio passi avanti e più perdo energie a dare un senso a tutto. “Ho chiuso” mi son detto, “mi ritiro”». Pausa. Silenzio. Lei trattiene il fiato: «e poi?» domanda. Poi ho pensato a lei. «Poi ho pensato a te» dico e il suo sguardo si illumina, «a tutti quelli che ho al mio fianco e ai quali amo offrire la birra, regalare braccialetti, scroccare la cena. Ho pensato a tutto e ho capito: ho solo bisogno di una pausa, di uno “’sticazzi” e di un “vaffanculo”, semplice semplice, senza sentirmi male cercando di essere sempre forte, senza sentirmi arrivato, senza dovermi per forza di cose sentirmi indistruttibile» lei capisce, sorride, «stamattina a lavoro mi hanno dato un furgone senza porta USB, quindi ho dovuto sorbirmi le canzonette di merda della radio… e sai cosa? L’ho fatto. Anzi, per un’oretta buona ho anche guidato a stereo spento, senza musica. Ascoltavo i rumori che entravano dal finestrino aperto. Ascoltavo me stesso», «poi t’ho chiamato io» aggiunge lei, «poi mi hai chiamato tu» confermo io. Sorridiamo. «Sei leggero cocco, lo sento» afferma lei, «hai semplicemente bisogno di sentirti così più spesso». Rifletto, annuisco, mi alzo. «Riprendiamo a correre?» suggerisco ma lei mi si para davanti, guardandomi dritto negli occhi: «oh» dice. «Oh» dico. Sorride: «riprenditi, affronta le cose con leggerezza». La guardo: «Leggerezza? Pesantezza casomai», «pesantezza?» chiede guardandomi, «sì, pesantezza, come una roccia». Mi guarda. «Come una roccia?» domanda, «sì, come una roccia» ripeto. Lei sorride alzando le spalle, «come una roccia», io insisto, sempre più convinto: «come una roccia, porca puttana». Lei annuisce, sorride uno dei suoi sorrisi enormi, poi: «oh sì… come una roccia, porca puttana!».
Mi bacia.

L’alba, il mostro, la spada e l’ascia

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Scendo dal furgone.
«Ciao, buongiorno».
Scarico la cesta.
Firmo la bolla.
«Ciao, grazie, buona giornata».
Salgo sul furgone. Osservo fuori dal vetro.
Scendo dal furgone. Alba magnifica. Merita una foto.
Click.
Salgo sul furgone. Attivo il vivavoce dal cellulare.
Metto in moto il furgone. Premo il tasto ‘chiamata’ dal volante.
Tu-tu-tu-tu-t «ehi».
Eccola. «Ehi». «Buongiorno» dice. «Buongiorno» dico, «scusa se t’ho svegliata». Silenzio. «Ti ho scritto io ieri sera che potevi chiamarmi quando volevi che tanto non sarei riuscita a dormire, cretino» dice lei. Silenzio. Ha ragione. «Hai ragione. Piccola dimenticanza» butto lì. «Che hai? Sei strano» chiede. Sgamato. «Niente, niente. Sto portando un ritardo di mezz’ora. Mezz’ora, ci credi? C’è traffico. C’era la fila anche al bar, ergo sto senza caffè. Senza caffè, ci credi?», «ci credo» risponde lei ridacchiando, «fermati al primo bar che trovi ora e prenditene due, di caffè» suggerisce con poca furbizia. «No» rispondo secco io, «mi si accumulerebbe il ritardo. Ma scherzi? A che ora torno a casa oggi? A mezzogiorno? È tardi porca vacca, è tardi!». Silenzio. Sta ridendo. «Beh?» chiedo, «che ridi?». Smette di ridere, prende fiato e… «niente, niente, cercavo di immaginarmi dentro a quel furgone che aria elettrizzante tira» e scoppia a ridere di nuovo. Provo a resistere, ma sbotto a ridere anch’io. «Puzza» rispondo, «puzza di chiuso, ma se apro i finestrini rischio di rimanerci secco dal freddo. E non mi funziona neanche la cazzo di pennetta USB oggi. Porca troia», «Ah. Male. Ho presente come stai quando sei costretto a guidare senza musica. Metti un po’ di radio no?», «no. Lo sai che odio la radio. Mettono canzoni di merda e parlano di cose di merda con un’ironia di merda e già la giornata è cominciata una merda, se poi finisce di merda ci resterei di merda».
Oh, merda, ho esagerato.
«Scusa» dico, «è meglio che attacchiamo dai, sto a mille e rischierei di sfogarmi con te».

Silenzio.

Silenzio.

Silenzio.

Ancora silenzio.

«Oh? Ci sei?» chiedo. «Certo che ci sono, imbecille. Non azzardarti mai più a chiedermi di attaccare, tanto non attacco. Lo sai come funziona. Se uno dei due ha bisogno chiama l’altro. Se non ha bisogno, chiama l’altro. Se si sente solo, se non si sente solo, se vuole solo chiacchierare, se non vuole chiacchierare, chiama l’altro. A qualsiasi ora, in qualunque momento, in ogni multiverso possibile e immaginabile» dice lei. Più chiara di così si muore. «Chiaro?» insiste. «Chiaro. Più chiaro di così si muore». Ride. «L’hai vista l’alba?» dico. «L’ho vista» dice. «Va tutto una merda, eh?» domanda improvvisamente. «No» rispondo io, «non va tutto una merda. La merda cade su altri. Cioè, ognuno ha la sua merda, per carità, ma come si dice: c’è chi sta peggio». Silenzio. «Senti» dice lei «se devi cominciare a tirare fuori frasi fatte senza un motivo valido allora sì, attacca». Silenzio gelido: è seria. «Niente frasi fatte» prometto. «Allora dimmi che hai, anche se già lo so». SBEM. «Già lo sai?» domando. «Già lo so» risponde. «Sentiamo» sfido io. «Ok» accetta la sfida, si schiarisce la voce e parte «pensi troppo. Di nuovo. Sempre. Porca vacca nei prati se pensi troppo. Vai in loop. Chissà a cosa stai pensando adesso. Anzi no, lo so: “Oh mio Dio mi ha sgamato… e se un giorno si stancherà di me e del mio accollo continuo?”», «mi accollo?» la interrompo, «LO SAPEVO! No, non ti accolli brutto rincoglionito, era per dire! Argh!» sbotta lei e io scoppio a ridere, «e non ridere quando sono seria!», «scusa», «niente, figurati». Silenzio. «Dicevo», si schiarisce nuovamente la voce, «pensi troppo. Cioè, ti conosco da tanto ormai… dormiamo insieme, mangiamo insieme, viaggiamo insieme, sogniamo insieme e sento sempre, sempre il tuo cervello che pensa, che si muove, che rompe le palle con ‘sti cazzo di problemi che ti fai. Problemi inutili, lo sai, ma sono tentacoli per te, quindi non ti chiedo di ignorarli. Ma di tagliarli sì, questo posso chiedertelo. Quindi… tagliali». Silenzio. La strada mi scorre davanti, il sonno continua a bussare ai finestrini ma io vado troppo veloce. Supero un bar pieno di gente, poi ne supero un altro e un altro ancora. «Oi, ci sei?» chiede lei rompendo il silenzio. «Certo che ci sono» rispondo, «scusa. Pensavo», «vaffanculo», «no, stupida, pensavo davvero. Pensavo a quello che mi hai detto. Hai ragione, inutile dirlo no? Hai sempre ragione tu. Va bene, taglierò i tentacoli. O almeno ci proverò» rifletto, penso in fretta, «ci provo sicuro». «Bravo. Tira fuori la spadina e colpisci il mostro enorme» dice lei, «io sarò al tuo fianco con i Pop Corn». Pausa, silenzio. «Con i Pop Corn?» chiedo. «Sì, con i Pop Corn. Perché sarà una battaglia da urlo bello mio, uno spettacolo. Ma uno spettacolo vero, con i fuochi d’artificio finali, tutti che si alzano urlando il tuo nome e l’intero stadio che esplode euforico». Silenzio. «Ci sei?» chiede, «sì, scusa stavo…», «no, nessuna scusa» mi blocca lei, «tranquillo, ti stavi allenando, ho capito. Il mostro si sconfigge così: allenandosi. Quindi allenati, pensa il giusto e agisci esageratamente. Affila la spada, che i tentacoli hanno la pelle dura e corazzata». Silenzio. Continuo ad ascoltarla a bocca aperta. «Grazie» balbetto, «di niente, scemo» risponde lei. «Ehi ascolta, devo scaricare. Se vuoi ti chiamo tra poco… o provi a dormire un po’?», «dormire? E chi dorme più ora? Sto preparando l’ascia!» urlacchia tutta eccitata. «L’ascia?» chiedo io, «eh! L’ascia! Così mentre tu ti occuperai del mostro grande io potrò guardarti le spalle facendo fuori i teschi che spuntano dal cimitero». Penso. Sorrido. «Tu sei matta» dico, poi scoppio a ridere, «io te l’ho sempre detto che non sei solo, bello mio» mi risponde. Sorrido. «Ci sentiamo dopo» mi dice. «Ci sentiamo dopo» le dico.

Scendo dal furgone.
«Ciao, buongiorno».
Scarico la cesta.
Firmo la bolla.
«Ciao, grazie, buona giornata».
Salgo sul furgone. Osservo fuori dal vetro.
Il mostro è enorme, bella mia, e gli scheletri già cominciano a spuntare dal cimitero… tutto è in dubbio e l’oscurità ricopre il mondo. La gente comincia a scappare, sento il peso della spada che mi pende dalla cinta. Sorrido testardo. Hai ragione tu, come sempre.
Ce la faremo.

Passo la mano tra i capelli

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Passo la mano tra i capelli. Ora posso. Sono cresciuti di un bel po’ e non ho più la “boccia”. Pensa te che stupido, rasarmi a zero perché crescevano troppo velocemente e si gonfiavano, mentre ora ho ricominciato a mettermi la gelatina e ogni tanto ci ficco le mani in mezzo, nei momenti in cui ho bisogno di un contatto ravvicinato col mio cervello.
A saperlo prima che bisognava solo trovare la misura giusta: andare dal parrucchiere, farseli accorciare nei punti in cui si gonfiano come mongolfiere e via, capelli quasi normali e zero battutine sulla calvizie (che a questo punto se arriverà saprò chi incolpare).
Misure. Bastava prendere le misure. Come quando parcheggi col furgone in mezzo a due auto parcheggiate a cazzo di cane. O come quando stai allestendo uno spettacolo teatrale e con lo Staff sei lì che prendi misure per sistemare bene la scenografia, per evitare che si veda il “dietro le quinte”.
Misure. Come quelle che la gente non si dà, sparando a zero, a buffo, magari spesso quasi rischiando di (o “riuscendo a”?) rovinare la vita delle persone.
Continuo a passarmi la mano tra i capelli, più e più volte: la situazione richiede ragionamenti importanti e distrazioni interessanti e produttive.
Che faccio? Continuo così o lascio? E’ abbastanza? Ma sarà mai abbastanza? Sarò mai abbastanza? Intanto i capelli continuano a crescere, la roba da fare si accumula e il tempo diminuisce improvvisamente. I capelli crescono di più, di più e sempre di più. «Ciao, giusto una spuntatina, grazie!» e via così, daccapo, sempre più daccapo. Punto e accapo.
Punto e accapo.
Punto e accapo.
Passo la mano in mezzo ai capelli, scarico una cesta, scribacchio qualcosa. Passo la mano in mezzo ai capelli, saluto i Pupi, ripeto una battuta. Passo la mano in mezzo ai capelli, ho paura di perdere gente, tremo seduto ad un tavolino con lei che mi guarda. Passo la mano in mezzo ai capelli, porca troia troppo lunghi, «ciao, giusto una spuntatina, grazie!». Passo la mano in mezzo ai capelli, ascolto i Pupi che provano, ceno con i miei e mio fratello. Passo la mano in mezzo ai capelli, mi guardo ossessivamente allo specchio, vado a trovare i nonni. Passo la mano in mezzo ai capelli, vado a correre, non so che cazzo fare stasera. Passo la mano in mezzo ai capelli, spero di poter contare su qualcuno, penso se tatuarmi o no.
Daccapo. Punto e accapo. Punto e accapo.
Punto e accapo. Punto e accapo. Daccapo.
La situazione richiede ragionamenti importanti e distrazioni interessanti e produttive.
C’è traffico, forse un incidente, passo la mano tra i capelli: spero tutto bene.
Faccio un errore a lavoro, mi mordo le labbra, passo la mano tra i capelli: cerco di accettare di essere umano, di poter sbagliare.
Aspetto. Attendo. Mi guardo intorno. Cosa c’è che non va? Cosa c’è che va? Cosa sto facendo? Cosa posso fare? Passo la mano tra i capelli, provo a decidere, a fare una scelta.
Aspetto.
Odio aspettare. Ma aspetto.
Aspetto. Ma odio aspettare.
Odio aspettare.
Ho dormito poco, ho ancora la birra in corpo, le chat con gli amici aperte, gli occhi lucidi e stanchi, la divisa sporca addosso, l’alba che bussa alle porte. Passo la mano tra i capelli. Comincia un’altra giornata.
Metto le cuffie, ignoro tutto. Non ci sto male. Non ci sto assolutamente male. Allontano la mia sensibilità e gioco a fare il duro. L’inesperienza mi tradisce: passo la mano tra i capelli.
Silenzio.
Ripeto.
Passo la mano tra i capelli, i Pupetti svolgono un esercizio teatrale, io li guardo e sorrido, passo la mano tra i capelli, mi chiama mamma, passo la mano tra i capelli, mi scrivono qualcosa per messaggio, passo la mano tra i capelli, “chissà se mi ha risposto?”, passo la mano tra i capelli, ho sbagliato ancora ma meglio dell’ultima volta, passo la mano tra i capelli, io ci credo alla Famiglia, passo la mano tra i capelli, no dai, nessun tatuaggio, passo la mano tra i capelli, vorrei baciarla stasera, passo la mano tra i capelli, ho scritto troppo.
Sospiro. La situazione richiede ragionamenti importanti e distrazioni interessanti e produttive.
Sorrido.
Bisogna prendere misure.
Passo la mano tra i capelli.
«Mo ce pensa Andrea».

Andrea Abbafati

Che bella ‘sta fine del mondo

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Nevica.
Sta nevicando.
Non nevicava da tempo… adesso la butta giù di brutto: si imbiancano le strade, si blocca il traffico, bestemmia la gente e io filo dritto sul mio furgoncino a ruote termiche con l’aria condizionata che mi pulisce i pensieri. Sto finendo il turno di lavoro, vado spedito ma con cautela verso la base e mi guardo attorno: è la fine del mondo. La gente si ferma smettendo di fare qualsiasi cosa stesse facendo per osservare fiocchi bianchi cadere dal nulla. Parcheggio il furgone, entro nel primo bar che trovo e ordino un caffè. Il caffè ci sta sempre bene quando uno c’ha i pensieri che gli assillano la mente. Comincio a sorseggiare la bevanda dalla tazzina e la testa mi parte chissà dove. Sarà la neve, sarà il gelo che c’è fuori, sarà la gente che quando nevica si stringe sempre di più, ma sto bene.
Che bella ‘sta fine del mondo.
Pago, esco e torno sul furgone, accendo lo stereo e mi sparo una canzone nuova di un cd nuovo scoperto da poco. Per strada tutti fermi mentre io procedo. A rilento, ma procedo. Squilla il telefono: «oi, scemo. Nevica» dici tu senza neanche salutare. «Non me ne ero accorto» rispondo. Giochiamo a chi mostra meno sentimenti ma tanto lo sappiamo entrambi che da lì a poco esploderemo come fuochi d’artificio
«Caffè?» chiedi tu. «Appena preso» ammetto io. Sento che sbuffi dall’altro lato della cornetta. Capisco il dramma: come mi sono permesso di prendere un caffè senza di te mentre sono a lavoro? «Va beh… allora facciamo che ci prendiamo un’altra cosa. Appena stacchi al solito bar, va bene?» butti lì… «certo, cretina», «a dopo, scemo». Ci vogliamo bene.
Parcheggio il furgone, firmo tutto quello che devo firmare, consegno le chiavi, mi scrollo di dosso la farina rimasta dalla consegna e esco dall’ufficio. Accendo la macchina. Parto. Con difficoltà, ma parto. Intanto la neve ha già ricoperto tutto. Porca troia… è proprio la fine del mondo.
Arrivo in piazza. O almeno credo. E’ tutto bianco. Non si vede assolutamente niente.
Entro nel bar. O almeno credo.
Lì seduta ci sei tu. Di questo sono sicuro.
«Hola!» urli appena entro e tutti si voltano. Bar pieno. Tutti stretti stretti per non patire il freddo approfittando dell’Apocalisse per scroccare un caffè. «Ciao bella» dico mentre la bacio in fronte. Il bacio in fronte è uno dei miei preferiti. Significa: “mi prendo cura di te, tranquilla”. Anche a lei piace, tanto che sorride e mi abbraccia forte. Fa improvvisamente un caldo bestiale. D’istinto volgo uno sguardo verso l’esterno e lei mi fa: «la fine del mondo, eh?» sorridendo. Sì, la fine del mondo, bella mia. E io e te stiamo qua. Io e te ci salveremo, tra un succo di frutta e un bacio in fronte. «Sì… decisamente la fine del mondo. Ci starebbe bene qualche zombie però» butto lì di risposta e lei scoppia a ridere. «Lo sapevo! Ancora i dannati morti viventi!», «sempre! Datemi qualche cranio da spaccare e sarò felice!» rispondo io. Ridiamo. Ridiamo come mai prima d’ora… e sai cosa? Ho capito tutto bella mia. Tutto. Mi sento improvvisamente libero da ogni cosa. Oggi va così. Oggi la neve mi ha liberato. E’ la fine del mondo, e la fine del mondo azzera i pensieri, è risaputo.
Oggi va così. Non me ne frega un cazzo del parere della gente. Non me ne frega un cazzo dei capelli che mi stanno ricrescendo e mi fanno l’effetto mongolfiera. Ignoro le voci che vengono messe in giro. Ignoro anche la fatica, la stanchezza che bussa alla porta, il puzzo di sudore che esce dalla divisa, la voglia che non ho di caffè. Sai che c’è, amore mio? Prendiamo un caffè, non un succo di frutta. Ne ho bisogno. Starò tutto il giorno sveglio, non dormirò, neanche dopo essermi alzato alle tre del mattino. Anzi, due caffè a testa. Con tre caffè in corpo sai come viaggerò? E volerò tra la neve, tra i fiocchi bianchi che abbelliscono ‘sto paese così vecchio e bello al tempo stesso. Viaggerò tra la gente, tra gli sguardi, tra gli affetti. Bacerò i miei nonni in fronte, i miei genitori, mio fratello. Dirò loro che li amo. Entrerò in un negozio di tatuaggi e ne uscirò con la pelle ancora rosa, perché avrò resistito alla tentazione di disegnarmi sul petto tutto quello che vorrei, perché lo sai che voglio fare l’attore… sai che voglio recitare, e un attore tecnicamente non potrebbe tatuarsi. Non entrerebbe mai nel personaggio, capisci?
Ho capito tutto. Questa neve, questa fine del mondo. Questo scroccare il caffè delle persone, mi ha fatto capire tutto. Abbiamo bisogno della fine di ogni cosa o almeno della minaccia che tutto potrebbe finire da un momento all’altro. Abbiamo bisogno di ricominciare, di sentirci in pericolo per poter diventare qualcun altro. Per poter fare la differenza. Per poter capire cosa è veramente importante.
«A che pensi?» mi domanda improvvisamente. «Alla fine del mondo» rispondo. Lei fa una smorfia divertita, mentre il barista ci allunga due caffè. Beviamo. La caffeina entra immediatamente in circolo.
Ho capito tutto, amore mio. Per oggi farò orecchie da mercante. Schiverò le frecce lanciate da arcieri professionisti, correrò come un supereroe con il dono della super velocità, scalderò l’aria col fuoco della mia passione e andrò avanti per la mia via. Mi guarderò attorno e ammirerò la bellezza di questa fine del mondo. La bellezza del bianco che dà il via alle cose. Il bianco che fa ricominciare. Il sapore di un caffè che ti sveglia l’anima, che ti sprona a non dormire.
«Scemo, sei stanco morto. Sali un attimo da me?» e improvvisamente arriva il sonno. «Certo» dico, e lei sorride.
Che bella ‘sta fine del mondo. La neve, la gente che scrocca caffè nei bar, lei che si spoglia sul suo letto, io lì in piedi, grondante sudore, con la divisa sporca. «Vado un attimo in doccia» dico. «Sbrigati, scemo» dice.
Che bella ‘sta fine del mondo. Con l’acqua calda che mi rilassa, mi dà forza, mentre fuori la gente si avvicina sempre di più. E per un attimo tutto sembra avere un senso. Per un attimo non me ne frega niente di niente: di cosa pensa la gente, di quello che dovrei fare, che vorrei fare, che è giusto che faccia.
Ho capito tutto, amore mio. Visto? Bastava una nevicata inaspettata per ritrovare il senso, la voglia, il coraggio perso.
Torno in camera. Lei si è addormentata nuda, sotto le coperte. La guardo.
Che bella ‘sta fine del mondo. Fuori la neve, dentro il fuoco e sceglierei sempre e sempre questo giorno per dirti che l’Apocalisse la vinceremo noi. Non esiste zombie, morte, guerra che possa fermarci. Dormi, io veglierò su di te. Inizio io il turno di guardia. Ti darò tutti i baci in fronte che vorrai. Tra succhi di frutta… ehm… pardon… tra caffè, sorrisetti, frecciatine e baristi che si intromettono nelle nostre chiacchierate portandoci da bere. Tra neve, gente che si riscalda, macchine ferme, furgoni paraculi con le ruote termiche che sfrecciano e canzoni nuove che scaldano l’anima. Tra paura, coraggio, voglia di fare, ispirazione, dita incrociate e “speriamo che vada tutto bene”.
Dormi, amore mio, che io ho capito tutto.
Mi siedo sul letto, guardo fuori dalla finestra e vedo che la neve sta ancora facendo il suo lavoro, poi guardo te: ti sei addormentata come una scema, fregandotene della decenza. Ti carezzo il volto caldo. Ti bacio. In fronte, sulle guance, sulla bocca. Ti sposto i capelli. Tu mugugni qualcosa nel sonno, io mi avvicino al tuo orecchio sinistro e sussurro: «abbiamo capito tutto, amore mio».
Ti guardo. Mi sdraio al tuo fianco. T’abbraccio.
Che bella ‘sta fine del mondo.

Andrea Abbafati

Di barche, di promesse, di capelli sciolti

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«Oh»
«Eh»
«Vedi che faccio ritardo»
«”Buon anno!”»
«Anche a te».
Sospira. Si sente la rassegnazione che attraversa la rete telefonica.
«Sei un idiota» dice. «Grazie» rispondo. «Ti sto aspettando da mezz’ora in piazza. Fa un freddo bestia. Dove sei?» chiede.
Domanda sbagliata. Domanda sbagliatissima.
«A casa».
Silenzio. «A casa? Che vuol dire che sei a casa?». Sospiro. «Sì. Sono a casa. Seduto in camera. In mutande». Di nuovo silenzio. «Sei a casa, seduto in camera, in mutande?» ripete domandando più a sé stessa che a me. «Sì» dico io. «Mea culpa» aggiungo.
Silenzio. Mamma mia quanti silenzi.
«Non dici niente?» chiedo. «Meglio per te che non dica niente, fidati». Sogghigno, lei mi sente. «Che ridi, cretino?». «Non sto ridendo… sto sogghignando. Comunque scusa, davvero. Dammi dieci minuti e arrivo». «Dieci minuti e arrivi?». «Sì, il tempo di fare una doccia e sono da te. Va beh, forse più di dieci minuti…». Silenzio.
«Ancora con questi silenzi… ho avuto un problema, ok? Ti chiedo scusa». «Che problema hai avuto? Roba grave?» chiede lei improvvisamente preoccupata. Penso. Roba grave? «Non lo so. Forse sì, forse no. Pensavo». «Pensavi». «Pensavo, sì».
Silenzio.
«Beh, anch’io pensavo» dice. «A cosa?» chiedo. «A quanti schiaffi ti prenderai prima della mezzanotte» taglia corto.
Brividi. Silenzio. Brividi di silenzio.
«Ci tengo a te» dico io. «Non mi compri con le smancerie questa volta. Buffone» dice lei.
Sorrido.
Prendo fiato.
Parto.
«Pensavo a quest’anno che è passato. A me. A te. A noi. Poi di nuovo a te. Pensavo a quanto bella sei, alle persone che ho perso, a quelle che ho incontrato. Pensavo a questa roba qua… e mentre ci pensavo mi sono seduto e sono rimasto così tipo per un’ora. Ti chiedi mai se facciamo abbastanza? Non voglio attaccare un pippone ma… davvero, facciamo abbastanza secondo te? La gente si accorge che esistiamo? Che facciamo cose? Che ci amiamo… che ci vogliamo bene? La gente capisce il senso delle nostre cose? Braccialetti… tatuaggi… sguardi… foto… sacrifici… chili in meno… chili in più… rancori… la gente capisce tutto questo o semplicemente chiude gli occhi e scappa? Se sì, se no… che senso ha tutta questa matassa di roba sensata o meno?».
Prendo fiato nuovamente ma lei mi interrompe prima di iniziare a parlare. «Fermo» dice. «Ho capito». Pausa. «Ho capito tutto».
Sorrido.
Prende fiato.
«Non me ne frega niente della gente. Quello che faccio lo faccio perché fa stare bene me e chi amo. Tatuaggi, braccialetti, collane, capelli sciolti, capelli legati, mezz’ora ad aspettare in piazza…» (pausa punitiva) «…tutto questo ha senso per me. Cosa deve capire la gente? Che mi vedo brutta? Che mi vedo bella? Che tengo a te? Che fa freddo e voglio abbracciare qualcuno? Cosa devo spiegare, alla gente? Chi salta dalla barca ha un motivo, una destinazione ed è un vincente per questo, anche se abbandona la nave. Chi resta, lo fa perché ha trovato casa, perché sta bene, perché ha trovato un motivo per non saltare giù. Ha trovato un motivo per rinunciare alla libertà di andarsene».
Tutto chiaro. Come sempre. Come ogni volta che parla lei.
«E adesso porca la vacca, vienimi a prendere che fa freddo, mannaggia a me e a quando sono puntuale!» sclera.
Sorrido. Scoppio a ridere. «E’ vero» dico, «ho freddo anch’io». «E ti credo! Sei in mutande, deficiente!». Scoppiamo a ridere insieme.
«Oh»
«Eh»
«Arrivo. Facciamo mezz’ora, ok?»
«Ok»
«Prepara gli schiaffi»
«Non c’è bisogno di ricordarmelo»
Rido.
«Arrivo»
«Ti aspetto»

Andrea Abbafati

SOS

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L’una di notte. Probabilmente sto facendo la cazzata più insensata della mia intera vita ma poco importa. La faccio. Voglio farla.
Sto per spegnere l’auto ma improvvisamente dallo stereo parte una canzone rap strana, mai ascoltata prima. Ne seguo attentamente il testo… riesce a coinvolgermi, mi ispira e subito vorrei tornare a casa a scrivere per sfogarmi un po’ ma penso che qui ci sei tu, quindi resto. Mentre aspetto che finisca la canzone ecco che incomincia a pioviccicare. Le gocce scorrono lentamente sui finestrini dell’auto come volessero dirmi qualcosa, esortarmi a tornarmene a casa o a scendere dalla macchina.

La canzone finisce.

Spengo la macchina.

Apro lo sportello.

Esco.

Non piove forte ma fa un freddo cane. Esce vapore ad ogni pensiero che faccio. Sono praticamente una vaporiera.
La casa è lì davanti a me ma è tutto spento, anche le luci della sua camera.
Vai, si comincia.
Come nei libri che piacciono alle ragazze. Come nei film smielati che odio.

Mi chino.

Prendo un sassolino.

Lo lancio contro la sua finestra.

Tic.

Niente.

Di nuovo.

Tic.

Niente, di nuovo.

Di nuovo, di nuovo.

Toc.

«Quanto sei carino».

Sobbalzo.
Mi volto.
Lei è dietro di me, appena uscita da un cespuglio, come nei cartoni animati che amavo da ragazzino.
Il mio orgoglio si frantuma e la vergogna comincia a salire che è un piacere. «Che ci fai qua fuori?» riesco a balbettare. Improvvisamente, il caldo. «Stavo venendo da te» risponde lei. Eh? «Eh? In che senso?» chiedo io. «Stavo venendo da te a tirarti sassi alla finestra. Ammetto però che li avrei scelti un po’ più grossi dei tuoi…» risponde, poi sbotta a ridere e mi salta addosso abbracciandomi. «Ferma» insisto, «veramente stavi venendo da me? E perché?». Lei si stacca e mi guarda con un sorrisetto beffardo. «Perché no?». La guardo, lei continua a ridere. Tutto questo è umiliante. «Volevo farti una sorpresa» butto lì, «e avevo bisogno di te». «Avevi?» chiede, «ho» rispondo. Mi abbraccia di nuovo poi avvicina le sue labbra al mio orecchio sinistro e «tutto questo è molto romantico, carino» e scoppia a ridere di nuovo. E’ tutta una risata oggi. «Comunque piove» le dico, mentre la vergogna pian piano cala di intensità, «se restiamo qui ti bagni dalla testa ai piedi». Silenzio. Improvvisamente si blocca e mi fissa sbalordita. Passa qualche secondo, poi… si siede. La guardo confuso. «Che fai?» chiedo, ma lei non risponde quindi mi siedo al suo fianco e le poggio una mano sulla gamba. «Beh?» domando. Finalmente mi guarda, con le gocce d’acqua che le cadono dai capelli: «sono molto delusa. Davvero». Silenzio. «E’ da quando ci conosciamo che ti rompo le palle sul fatto che si fanno le cose in due… e ora?». Continuo a guardarla intontito senza capirci nulla. Lei capisce che non capisco quindi sbuffa e «mi bagno dalla testa ai piedi?» chiede, «mi?». Capisco. «Ci» mi corregge, «ci bagniamo! Perché “mi”? Tu sei impermeabile? Uff!». Uff. «Quando sbuffi così sembri un personaggio dei cartoni animati» le dico e subito lei comincia a prendermi a cazzotti alternandoli a minacce varie tipo “adesso ti faccio vedere io” e “ti graffio gli sportelli della macchina se mi paragoni nuovamente ad un cartone animato”. Poi si calma. Restiamo per un po’ in silenzio ad ascoltare il rumore della pioggia che ci bagna mentre il vapore che esce dalle nostre bocche fa disegni astratti per aria per poi sparire nel nulla.
«Comunque era un complimento» le spiego, «somigliare ad un cartone animato dico, era un complimento. Nel senso, sei buffa quando sbuffi in quel modo». Non l’avessi mai fatto. Mi guarda. La guardo. «Hai il naso grosso» sbotta improvvisamente. Sorrido. «Non hai nemmeno i capelli» aggiunge. Continuo a sorridere. «E poi sei anche stupido» conclude. Scoppio a ridere. «Lo sai che non mi scalfisci minimamente, vero? Sei troppo innocente per ferirmi a parole. E sai anche che i capelli me li rado, stupida» le spiego e subito lei trattiene il respiro, si morde le labbra e… «hai ragione. Non so offenderti. Hai perfettamente ragione». Mi rilasso. Ha gettato la spugna. Finalmente possiamo stare tranquilli.
«Non riesci nemmeno a fare una sorpresa che subito vieni sgamato».
SBEM. Lampo a ciel sereno. «Sei una stronza» dico. «Lo so» risponde lei.
Silenzio. La guardo. Mi guarda. Scoppiamo a ridere. «Ho vinto io!» dice lei tutta contenta. Sì, hai vinto tu, bella mia. Vinci sempre tu.
«Ha smesso di piovere» mi fa notare e subito si accovaccia a me, «se domani avremo la bronchite sarà esclusivamente colpa tua» continua sorridendo. «Comunque, come mai questa sassaiola? A cosa devo il piacere?» mi domanda mentre mi stringe forte a sé. «Diciamo che era un SOS». «Un SOS? Addirittura?». «Sì. Un SOS bello potente» concludo. Sì, un SOS veramente bello potente. Lei mi stringe sempre più forte. «Spara allora» dice, poi resta in attesa pronta ad ascoltare. Respiro. Mi avvicino lentamente a lei, poi… «BANG!». Stavolta è lei a sobbalzare, «sei veramente un cretino! Stupido! Stai facendo di tutto per allungare il brodo e tenermi appesa alle tue labbra… sei più noioso della tua serie tv sugli zombie preferita che ormai fa puntate di cinquanta minuti basate su colpi di scena inesistenti!» e ricomincia a prendermi a cazzotti. Io rido. Lei ride. Ricomincia a piovere. «Sono venuto perché amo abbracciarti e in una situazione di pericolo o di indecisione penso immediatamente a questo. Al fatto che amo abbracciarti» dico mentre la pioggia cerca di coprire le mie parole, quindi alzo leggermente la voce fregandomene del fatto che ormai si son fatte le due. «Ho una domanda da farti» annuncio e subito lei mi concede la sua attenzione alzando il sopracciglio: «spara» dice, «NO! Non farlo! Dimmi… DIMMI!» si corregge subito e io faccio veramente fatica a trattenere la risata per quanto è bella, ma il momento è serio: «non hai mai la paura improvvisa di restare da sola? Non pensi mai che magari un giorno ti sveglierai e ci sarai solo tu? Senza me… senza le persone che ti hanno accompagnata fino ad oggi… tu. Solo tu». Silenzio. Riflette. «Sola tipo come in una di quelle storie apocalittiche che piacciono tanto a te?» chiede. «Sì, anche» rispondo io, «più o meno dai. Facciamo che ti svegli sola, ma con la gente attorno. Cioè io ci sono, anche i tuoi amici… ma l’affetto che ci contraddistingueva no. Sei sola. Scopri improvvisamente di aver lottato per creare qualcosa ed essere stata l’unica a crederci e a volerla portare avanti davvero». La sento che pensa per qualche secondo poi fa una smorfia disgustata: «brutto» mormora. «Brutto sì» concordo, poi la stringo sempre più forte. «Beh… partendo dal fatto che se credo in qualcosa la porto avanti comunque… capita di restare da soli. E’ capitato, sta capitando e capiterà. Ma una volta presa una strada si deve proseguire, quindi se proprio mi ritroverò da sola vorrà dire che lotterò per sopravvivere come ho sempre fatto» spiega. «Sta alla base di tutto, no? Fa sicuramente paura… ma fa parte dell’animo umano. Ad un certo punto secondo me bisogna diventare egoisti, pensare prima a sé stessi e andare avanti, altrimenti si muore da soli. E deve essere veramente brutto morire da soli». Rifletto su ciò che ha appena detto mentre prende fiato e continua: «non so cosa ti sia successo ma se vuoi puoi approfittare del fatto di non essere solo e di avere me al tuo fianco» dice mentre mi stringe con una forza inaudita, «so quanta passione metti in tutto quello che fai… sei tale e quale a me, per questo ci prendiamo così bene. Pensiamo che tutti la pensino come noi. Siamo convinti che tutti siano disposti a sacrifici immensi per portare avanti la causa e restiamo sempre a bocca aperta come dei fessi quando scopriamo a nostre spese che non è così». La ascolto con attenzione e mi ritrovo nella descrizione: un fesso a bocca aperta. Mi ha capito. Mi capisce da sempre. Lei c’è e prende nuovamente fiato come se dovesse immergersi dentro di me per scovare la radice del problema: «potrai venire tutte le notti alla stessa ora qui e lanciarmi massi contro il vetro ma io sarò saltata fuori dalla finestra prima del tuo arrivo ogni volta, perché ti capisco. Perché non sto mai ferma ad aspettare, proprio come te. Siamo simili. Mai immobili. Neanche adesso: seduti su un prato sotto la pioggia, eppure mai stati così in movimento come ora. Ecco perché ti capisco: siamo soldati nella stessa guerra. Ci puliamo le ferite insieme perché sappiamo che se non ci medichiamo tra di noi siamo belli che spacciati».

Penso. Lei mi guarda. Io penso e lei mi guarda.

«Dove t’ho trovata?» domando. Lei ride. «Se non la smetti di fare il fesso ti lancio un sasso in faccia». La delicatezza. «Allora? Soddisfatto della risposta?» chiede. «Assolutamente. Un SOS magnifico» rispondo, «grazie. Davvero».  Silenzio. Lei solitamente odia i miei grazie ma questa volta non sembra voler dire nulla. Restiamo a guardarci in silenzio forse per ore, magari per qualche minuto, poi lei si alza, io faccio altrettanto, ci guardiamo, ci abbracciamo e da così, abbracciati, lei improvvisamente mi sussurra all’orecchio, con la sicurezza di chi c’è: «di niente, soldato».

Andrea Abbafati