Alba facendo

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Squilla.
Leggo sullo schermo il nome di un collega.
Rispondo.
«Ao»
«Ao, ‘ndo stai?»
«Ecco sto tornando, ho fatto poco fa l’ultimo cliente. Arrivo»
«Sbrighete che forse devi partire per il secondo giro o m’aiuti a prepararlo almeno»
«No problem, arrivo. Oh, avvisa gli altri che porto i caffè»
«Ammazza e che è successo? Tu che offri?»
«Ma se offro sempre, su. Dai, arrivo»
«Vabbè… sbrighete me riccomanno, coglione»
«Ecco mo’ faccio tardi apposta, deficiente».
Il collega sbotta a ridere. Chiudo la chiamata. La strada è vuota, proseguo tranquillo sul furgone, gli occhi stanchi che non si chiudono solo grazie ai vari caffè presi.
Squilla di nuovo.
Neanche leggo il nome sullo schermo.
«Oh, hai rotto il cazzo, t’ho detto che arrivo… aspetta no?».
Silenzio.
Troppo silenzio.
Mi viene un dubbio ma non faccio in tempo a guardare sul display che…
«Oh, ma che problemi hai?».
È lei.
«Oh, scusa… credevo fosse il collega di prima! Scusa scusa scusa» spiego esterrefatto.
«Grazie del buongiorno eh, non dovevi» dice lei, ma sento che è divertita.
«MA BUONGIORNO! Comunque scusa davvero… è che pensavo mi avesse richiamato per rompermi le palle come fa spesso» Leggi tutto “Alba facendo”

Il bicchiere di vita in questa birra di merda

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Novembre, ore 23.00. Esterno. Dal pub poco distante da noi esce musica house, dance… non so bene, non seguo il genere. So solo che fa “bum bum bum”. Ho gli occhi chiusi, mi lascio cullare dal silenzio rotto dalla musica assordante e dal sapore della birra fredda, poi c’è lei, al mio fianco. Sento la sua presenza, il suo sguardo, il suo respiro.
«Terra chiama Luna, Terra chiama Luna… Luna mi ricevi?».
Apro gli occhi. Lei mi guarda sorridente. «Ma buongiorno» dice. «Mpf», le rispondo. «Sei bloccato? Che hai?» domanda. «Niente, niente. Fa freddo» rispondo. Mi si avvicina, mi mette il braccio sinistro lungo le spalle e mi stringe a sé. «Se vuoi ci spostiamo dentro, il pub è pieno ma un posto lo troviamo sicuro» propone; «no macché, va bene qui. Adesso sento caldo» dico. Lei ride, poi poggia il bicchiere di birra quasi vuoto (o quasi pieno) sulle labbra e beve. Faccio lo stesso, anche se il mio di bicchiere è decisamente più quasi vuoto (o quasi pieno). Improvvisamente mi viene un’idea, stacco il bicchiere dalle labbra, mando giù la birra gelida e dico: «il bicchiere di vita in questa birra di merda». Lei smette di bere e mi guarda accigliata: «eh?». «Il bicchiere di vita in questa birra di merda» ripeto. Lei guarda il bicchiere poi dice: «se la birra fa schifo la finisco io… a me piace». Silenzio. «Ho avuto un’idea» dico. Lei capisce: «non farai come l’altra volta a lavoro che sei partito col furgone vuoto perché avevi capito come finire una delle tue storie eh?» e scoppia a ridere. Sbem. Colpito in pieno. Orgoglio ferito. «So che non sembra, ma non sono così rincoglionito: imparo dai miei errori» dico con una punta d’acido piuttosto evidente. «E come avresti risolto la cosa per non ritrovarti licenziato un giorno di questi?» chiede lei curiosa, col sorriso furbetto sempre stampato in faccia. «Comincio a pensare solo dopo aver caricato tutto. Niente pensieri, storie e idee dalle tre e trenta alle cinque del mattino e dalle dodici alle dodici e trenta del pomeriggio» dico. «Ottimo. E ci riesci?» chiede curiosa. «No» rispondo con amarezza, «ma ci provo con abbastanza impegno, tutti i giorni». «Non male, cowboy, non male!» esclama, mi dà un colpetto sulla spalla col pugno sinistro mentre riprende a bere la birra, che finisce. «Senti, vado a prenderne un’altra… tu la vuoi?» mi domanda. Guardo la birra, porto nuovamente il bicchiere sulle labbra e verso il contenuto in bocca, poi mando giù. «Sì, grazie» dico. «Sempre la stessa?». «Sempre la stessa». Prende il mio bicchiere vuoto e va, entra nel pub. Resto solo. Silenzio e musica. Solo silenzio e musica. Dicono che quando uno muore vede tutta la sua vita passargli davanti. Sto forse morendo? Adesso? Vedo tutto. Le mattine fredde a far colazione con lei, con gli amici. Le serate gelide a baciarsi, mezzi nudi nel parcheggio che la macchina è troppo piccola. I progetti fatti, i fogli di carta scritti. Chi se ne è andato. Chi è rimasto. Chi rimarrà. La palestra. La scuola. Il lavoro. I colleghi che ti offrono il caffè. I tatuaggi. I ‘grazie’. Le lacrime. La saliva sulle labbra. I battiti che aumentano.

I battiti che aumentano.

Apro la bocca.

Vado a tempo e parlo.

Vado a tempo.

Parlo.

Respiro forte, vado a tempo e parlo:
«Le cazzate che faresti per dimostrare ‘sta cosa ti uccideranno. I fremiti, il sudore, le notti in bianco, la musica rap nelle orecchie, le lacrime e le ansie che bruciano. I chilometri che faresti per dimostrare questo amore, i film che guarderesti per sopprimere questo orrore. La roba che scrivi, che c’hai da fa, la gente che ti dà retta. Le notti in bianco, il bicchiere di birra notturno e la corsa il giorno dopo. La puzza di polvere sotto il naso, le foto da modificare, le locandine fatte in casa con i pixel che prendono vita. Le imprecazioni, i ricordi, i curriculum sopra e sotto i copioni scritti e cestinati. La roba che scrivi, che c’hai da fa. Le notti in bianco, le lei dimenticate ma manco tanto, la tastiera vecchia che scricchiola, l’aria pesante che puzza, la guerra che fuori gioca a nascondino, la gente che ti dà retta. Il cappuccino alla mattina con gli altri, il caffè subito dopo, le gomme da masticare per dominare l’ansia, che non è precisamente ansia da prestazione. È ansia di essere all’altezza. L’ansia. I caffè, la gente che ti dà retta. Il bicchiere di vita in questa birra di merda. La roba che scrivi, che c’hai da fa, la gente che ti dà retta, il sipario vecchio che profuma di nuovo, gli occhi che ti guardano, la gente che entra e esce, la fiducia che non c’hai ma che ti danno loro. Il bicchiere di birra notturno e la corsa il giorno dopo. Il sipario vecchio che profuma di nuovo».
Silenzio. Anche la musica sembra fermarsi. Sento una presenza dietro di me. È lei.
«Dovresti bere ogni sera se l’alcol ti porta a partorire queste cose»
«No, non sempre. Oggi è una serata fortunata, forse»
«Avresti il permesso di essere licenziato tutte le volte che vuoi. Dovresti camparci con questa roba, sai?»
«Camparci? Ma mi hai visto?»
«Ti ho visto, ti ho visto. Il tuo problema è che metti radici, sempre detto io»
«Radici? In che senso?»
«Tieni, prendi la birra che ti spiego. Questo giro lo offro io» e si siede sul muretto. Intanto la musica ricomincia. Io sorseggio la birra in piedi, gli occhi su di lei, ma lei sta zitta e mi guarda, quindi mi siedo e lei comincia a parlare. «Metti radici. Ti aggrappi alle cose poi, appena queste giustamente e per natura cambiano o cessano di esistere, resti bloccato, spiazzato. Come con le tue ex. Mi hai detto che hai buttato tutti i loro regali, no?». La guardo. È una trappola? «Certo» rispondo, «ma che c’entra adesso?». «C’entra eccome, bimbo. Credi in quello che fai, ma fallo per te, non per gli altri. Per te. Punto» dice, poi beve un sorso di birra.
Ha ragione.
«Ok, allora da oggi basta festeggiare per gli obiettivi raggiunti. Hai ragione. Basta sorrisone soddisfatto, basta entusiasmo e basta restarci male per le cose quando vanno male o comunque non come vorresti» dico. Lei smette di bere. «Non hai capito una ceppa. Non dico di smettere di provare emozioni, porca vacca. Dico che dal principio devi fare una cosa per te, non per gli altri. Capito? È normale poi rimanerci male. Devi provare a non mettere radici. A sentirti libero, non legato a qualcosa o a qualcuno, altrimenti non vivi più. Le persone cambiano, gli eventi cambiano. Tutto cambia bimbo. Anche tu. Quindi perché aspettarsi l’alba di sera?» e continua a bere. Fisso la birra come uno che ha appena ricevuto una botta in faccia. Rifletto. Perché aspettarsi l’alba di sera? «Non pensarci troppo», dice, «non ci guadagni niente. Almeno stasera non pensarci. Bevi e basta, stavolta non ti faccio la paternale» dice lei. «Capirai, ‘sta birra farà sì e no cinque gradi» preciso io. «Allora non ubriacarti di birra, ma di libertà. Di silenzio. Lo senti il silenzio? Ecco. Azzera tutto. Spegni il cervello. Svuota tutto. Bevilo ‘sto bicchiere. Bevilo tutto. Vedrai che starai meglio. Com’era? “Il bicchiere di vita in questa birra di merda”» e mi bacia, poi alza il bicchiere: «cin cin!».

Andrea Abbafati

L’alba, il mostro, la spada e l’ascia

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Scendo dal furgone.
«Ciao, buongiorno».
Scarico la cesta.
Firmo la bolla.
«Ciao, grazie, buona giornata».
Salgo sul furgone. Osservo fuori dal vetro.
Scendo dal furgone. Alba magnifica. Merita una foto.
Click.
Salgo sul furgone. Attivo il vivavoce dal cellulare.
Metto in moto il furgone. Premo il tasto ‘chiamata’ dal volante.
Tu-tu-tu-tu-t «ehi».
Eccola. «Ehi». «Buongiorno» dice. «Buongiorno» dico, «scusa se t’ho svegliata». Silenzio. «Ti ho scritto io ieri sera che potevi chiamarmi quando volevi che tanto non sarei riuscita a dormire, cretino» dice lei. Silenzio. Ha ragione. «Hai ragione. Piccola dimenticanza» butto lì. «Che hai? Sei strano» chiede. Sgamato. «Niente, niente. Sto portando un ritardo di mezz’ora. Mezz’ora, ci credi? C’è traffico. C’era la fila anche al bar, ergo sto senza caffè. Senza caffè, ci credi?», «ci credo» risponde lei ridacchiando, «fermati al primo bar che trovi ora e prenditene due, di caffè» suggerisce con poca furbizia. «No» rispondo secco io, «mi si accumulerebbe il ritardo. Ma scherzi? A che ora torno a casa oggi? A mezzogiorno? È tardi porca vacca, è tardi!». Silenzio. Sta ridendo. «Beh?» chiedo, «che ridi?». Smette di ridere, prende fiato e… «niente, niente, cercavo di immaginarmi dentro a quel furgone che aria elettrizzante tira» e scoppia a ridere di nuovo. Provo a resistere, ma sbotto a ridere anch’io. «Puzza» rispondo, «puzza di chiuso, ma se apro i finestrini rischio di rimanerci secco dal freddo. E non mi funziona neanche la cazzo di pennetta USB oggi. Porca troia», «Ah. Male. Ho presente come stai quando sei costretto a guidare senza musica. Metti un po’ di radio no?», «no. Lo sai che odio la radio. Mettono canzoni di merda e parlano di cose di merda con un’ironia di merda e già la giornata è cominciata una merda, se poi finisce di merda ci resterei di merda».
Oh, merda, ho esagerato.
«Scusa» dico, «è meglio che attacchiamo dai, sto a mille e rischierei di sfogarmi con te».

Silenzio.

Silenzio.

Silenzio.

Ancora silenzio.

«Oh? Ci sei?» chiedo. «Certo che ci sono, imbecille. Non azzardarti mai più a chiedermi di attaccare, tanto non attacco. Lo sai come funziona. Se uno dei due ha bisogno chiama l’altro. Se non ha bisogno, chiama l’altro. Se si sente solo, se non si sente solo, se vuole solo chiacchierare, se non vuole chiacchierare, chiama l’altro. A qualsiasi ora, in qualunque momento, in ogni multiverso possibile e immaginabile» dice lei. Più chiara di così si muore. «Chiaro?» insiste. «Chiaro. Più chiaro di così si muore». Ride. «L’hai vista l’alba?» dico. «L’ho vista» dice. «Va tutto una merda, eh?» domanda improvvisamente. «No» rispondo io, «non va tutto una merda. La merda cade su altri. Cioè, ognuno ha la sua merda, per carità, ma come si dice: c’è chi sta peggio». Silenzio. «Senti» dice lei «se devi cominciare a tirare fuori frasi fatte senza un motivo valido allora sì, attacca». Silenzio gelido: è seria. «Niente frasi fatte» prometto. «Allora dimmi che hai, anche se già lo so». SBEM. «Già lo sai?» domando. «Già lo so» risponde. «Sentiamo» sfido io. «Ok» accetta la sfida, si schiarisce la voce e parte «pensi troppo. Di nuovo. Sempre. Porca vacca nei prati se pensi troppo. Vai in loop. Chissà a cosa stai pensando adesso. Anzi no, lo so: “Oh mio Dio mi ha sgamato… e se un giorno si stancherà di me e del mio accollo continuo?”», «mi accollo?» la interrompo, «LO SAPEVO! No, non ti accolli brutto rincoglionito, era per dire! Argh!» sbotta lei e io scoppio a ridere, «e non ridere quando sono seria!», «scusa», «niente, figurati». Silenzio. «Dicevo», si schiarisce nuovamente la voce, «pensi troppo. Cioè, ti conosco da tanto ormai… dormiamo insieme, mangiamo insieme, viaggiamo insieme, sogniamo insieme e sento sempre, sempre il tuo cervello che pensa, che si muove, che rompe le palle con ‘sti cazzo di problemi che ti fai. Problemi inutili, lo sai, ma sono tentacoli per te, quindi non ti chiedo di ignorarli. Ma di tagliarli sì, questo posso chiedertelo. Quindi… tagliali». Silenzio. La strada mi scorre davanti, il sonno continua a bussare ai finestrini ma io vado troppo veloce. Supero un bar pieno di gente, poi ne supero un altro e un altro ancora. «Oi, ci sei?» chiede lei rompendo il silenzio. «Certo che ci sono» rispondo, «scusa. Pensavo», «vaffanculo», «no, stupida, pensavo davvero. Pensavo a quello che mi hai detto. Hai ragione, inutile dirlo no? Hai sempre ragione tu. Va bene, taglierò i tentacoli. O almeno ci proverò» rifletto, penso in fretta, «ci provo sicuro». «Bravo. Tira fuori la spadina e colpisci il mostro enorme» dice lei, «io sarò al tuo fianco con i Pop Corn». Pausa, silenzio. «Con i Pop Corn?» chiedo. «Sì, con i Pop Corn. Perché sarà una battaglia da urlo bello mio, uno spettacolo. Ma uno spettacolo vero, con i fuochi d’artificio finali, tutti che si alzano urlando il tuo nome e l’intero stadio che esplode euforico». Silenzio. «Ci sei?» chiede, «sì, scusa stavo…», «no, nessuna scusa» mi blocca lei, «tranquillo, ti stavi allenando, ho capito. Il mostro si sconfigge così: allenandosi. Quindi allenati, pensa il giusto e agisci esageratamente. Affila la spada, che i tentacoli hanno la pelle dura e corazzata». Silenzio. Continuo ad ascoltarla a bocca aperta. «Grazie» balbetto, «di niente, scemo» risponde lei. «Ehi ascolta, devo scaricare. Se vuoi ti chiamo tra poco… o provi a dormire un po’?», «dormire? E chi dorme più ora? Sto preparando l’ascia!» urlacchia tutta eccitata. «L’ascia?» chiedo io, «eh! L’ascia! Così mentre tu ti occuperai del mostro grande io potrò guardarti le spalle facendo fuori i teschi che spuntano dal cimitero». Penso. Sorrido. «Tu sei matta» dico, poi scoppio a ridere, «io te l’ho sempre detto che non sei solo, bello mio» mi risponde. Sorrido. «Ci sentiamo dopo» mi dice. «Ci sentiamo dopo» le dico.

Scendo dal furgone.
«Ciao, buongiorno».
Scarico la cesta.
Firmo la bolla.
«Ciao, grazie, buona giornata».
Salgo sul furgone. Osservo fuori dal vetro.
Il mostro è enorme, bella mia, e gli scheletri già cominciano a spuntare dal cimitero… tutto è in dubbio e l’oscurità ricopre il mondo. La gente comincia a scappare, sento il peso della spada che mi pende dalla cinta. Sorrido testardo. Hai ragione tu, come sempre.
Ce la faremo.

Pausa

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Sono le sei e fa freddo. La notte se ne sta andando e io ogni tanto mi ritrovo a pensare a te alternando i tuoi occhi a qualche battuta del copione nuovo che sto studiando. Ne son successi di casini ultimamente, ma sono rilassato. Tranquillo. L’atmosfera mi aiuta.
Sono sul furgone, sto lavorando. Dallo stereo esce musica rap direttamente dalla mia pennetta USB… roba troppo confusionaria per una mattina così. Stacco e imposto lo stereo su ‘radio’. Stanno passando un tormentone estivo. Meglio di niente.
Sul sedile del passeggero fa la sua bella presenza una raccolta di testi teatrali di Benni tra i quali fa capolino prepotentemente “Il Dottor Divago”, uno dei miei pezzi preferiti. Ecco, mi sento come lui in questo preciso istante. Solo che no, fuori non piove. Ma tu non ci sei.
Potrei chiamarti ma già so cosa mi diresti: «ehi», e io «ehi. Scusami se ti ho svegliata» e tu mentiresti spudoratamente «ma scherzi. Ero sveglia». Piccola bugiarda tradita dalla tua stessa voce assonnata. Ma nonostante il sonno di entrambi staremmo le ore a sentirci respirare, io che ogni tanto scendo e risalgo dal furgone e tu sempre lì, in attesa. Perché è questo che fai: attendi.

Ma non ti chiamo.

Perché non sarebbe giusto.

Perché non vorresti ascoltarmi. O forse sì.

E poi devo lavorare.

Gli occhi mi cadono su un’alba spettacolare ma non riesco a fotografarla in tempo. Dai, lo sai che non uso il cellulare mentre guido. E’ pericoloso. Quindi mi fermo in un piazzale vuoto e scatto una foto ad un altro pezzetto di alba assolutamente diverso da quello di prima ma comunque bello. Potrei tornare indietro e fotografare quel tratto meraviglioso che come un dipinto mi ha accecato gli occhi ma sarebbe un’incoerenza pazzesca ed imperdonabile. Ho scattato una foto per te, che mi hai insegnato a non guardarmi indietro, ad apprezzare quello che ho adesso… non avrebbe senso tornare indietro per immortalare qualcosa che reputo più bello. Va bene così. Ci accontentiamo di questo pezzo di alba oggi, ok?
Metto in moto nuovamente il furgone e mi rimetto in cammino. Avevo lasciato il volume della radio a palla e quindi mi prende quasi un colpo quando la nuova canzone trasmessa parte in modo violentissimo. Che spavento! Penso a come avresti reagito tu, cominciando a dare piccoli calci a terra come una bambina arrabbiata perché una piccola paura improvvisa le ha buttato a terra l’elmetto da guerriera, e sorrido. «Che ridi, scemo?!» mi urleresti tu, «niente!» risponderei io e continuerei a guidare trattenendo la risata più grande del mondo.
Pausa. Ecco. Questa mattinata la chiamerò “Pausa”. Pausa a tutto e da tutti. Pausa da te, ti lascio dormire. Per questa volta mi accontento di immaginarti ma domani ti chiamo sicuro. Alle quattro. Domani ti chiamo alle quattro, appena sveglio. Sai che meraviglia? Entrambi assonnati, rincoglioniti dal sonno ma felici di sentirci. Probabilmente.
Pausa. Oggi sono in pausa. Spengo lo stereo. Si sente qualche grillo che canticchia fuori, mentre il furgone sfreccia piano per le strade. Si, piano. Dai, lo sai che non corro per strada. E’ pericoloso.
Pausa. Oggi metto in pausa. Il rumore. L’amore. La rabbia. Il rancore. I dibattiti. Lo stomaco che fa male. La dieta. Il senso di colpa per averla già infranta ieri, la dieta. Il mal di testa. Oggi metto in pausa anche lo studio del copione.
Squilla il telefono. Sei tu.
«Ehi scemo! A che punto stai?». “Ancora in alto mare bella mia. Non sono nemmeno a metà giro” dovrei dire, «buongiorno bella mia! Quasi a metà giro. Come mai già sveglia?» chiedo. Mi hai insegnato tu a guardare sempre positivo. «Ho dormito una merda». “Linguaggio!”, «linguaggio!». «Dai, ci manchi solo tu che mi fai la predica di prima mattina! Volevo solo sentirti, penso che andrò a farmi una doccia». “Lava via ogni cosa, bella mia. Tranne me”. «Perfetto. Ci sentiamo quando finisco, ok? Colazione insieme?» propongo. «Colazione insieme!» ripete lei, poi mette giù.
Pausa. Oggi sono in pausa. Non esiste niente, solo la strada. E la percorrerò tutta, fino alla mia destinazione.
Pausa. Oggi metto in pausa. Oggi vado piano, mi concedo un respiro in più. Accendo di nuovo la radio, stanno passando la pubblicità. Sorrido.
Pausa. Oggi pausa. Tutto tranquillo. So per certo che stavolta sì, stavolta andrà tutto bene.

 

Andrea Abbafati