RacCorto n. 5 – Piccole regole giuste

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Guarda il tramonto.
Osserva l’alba.
Non paragonarli.
Studia le persone. I loro errori. Le loro vittorie.
Non paragonarti.
Ascolta il mondo e benedici la tua libertà. Tu che puoi.
Stancati.
Riposati.
Guarda il sole per un po’, poi sposta lo sguardo e osserva quanta bellezza c’è quando spariscono le macchie nere.
Fai pensieri positivi.

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Il bicchiere di vita in questa birra di merda

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Novembre, ore 23.00. Esterno. Dal pub poco distante da noi esce musica house, dance… non so bene, non seguo il genere. So solo che fa “bum bum bum”. Ho gli occhi chiusi, mi lascio cullare dal silenzio rotto dalla musica assordante e dal sapore della birra fredda, poi c’è lei, al mio fianco. Sento la sua presenza, il suo sguardo, il suo respiro.
«Terra chiama Luna, Terra chiama Luna… Luna mi ricevi?».
Apro gli occhi. Lei mi guarda sorridente. «Ma buongiorno» dice. «Mpf», le rispondo. «Sei bloccato? Che hai?» domanda. «Niente, niente. Fa freddo» rispondo. Mi si avvicina, mi mette il braccio sinistro lungo le spalle e mi stringe a sé. «Se vuoi ci spostiamo dentro, il pub è pieno ma un posto lo troviamo sicuro» propone; «no macché, va bene qui. Adesso sento caldo» dico. Lei ride, poi poggia il bicchiere di birra quasi vuoto (o quasi pieno) sulle labbra e beve. Faccio lo stesso, anche se il mio di bicchiere è decisamente più quasi vuoto (o quasi pieno). Improvvisamente mi viene un’idea, stacco il bicchiere dalle labbra, mando giù la birra gelida e dico: «il bicchiere di vita in questa birra di merda». Lei smette di bere e mi guarda accigliata: «eh?». «Il bicchiere di vita in questa birra di merda» ripeto. Lei guarda il bicchiere poi dice: «se la birra fa schifo la finisco io… a me piace». Silenzio. «Ho avuto un’idea» dico. Lei capisce: «non farai come l’altra volta a lavoro che sei partito col furgone vuoto perché avevi capito come finire una delle tue storie eh?» e scoppia a ridere. Sbem. Colpito in pieno. Orgoglio ferito. «So che non sembra, ma non sono così rincoglionito: imparo dai miei errori» dico con una punta d’acido piuttosto evidente. «E come avresti risolto la cosa per non ritrovarti licenziato un giorno di questi?» chiede lei curiosa, col sorriso furbetto sempre stampato in faccia. «Comincio a pensare solo dopo aver caricato tutto. Niente pensieri, storie e idee dalle tre e trenta alle cinque del mattino e dalle dodici alle dodici e trenta del pomeriggio» dico. «Ottimo. E ci riesci?» chiede curiosa. «No» rispondo con amarezza, «ma ci provo con abbastanza impegno, tutti i giorni». «Non male, cowboy, non male!» esclama, mi dà un colpetto sulla spalla col pugno sinistro mentre riprende a bere la birra, che finisce. «Senti, vado a prenderne un’altra… tu la vuoi?» mi domanda. Guardo la birra, porto nuovamente il bicchiere sulle labbra e verso il contenuto in bocca, poi mando giù. «Sì, grazie» dico. «Sempre la stessa?». «Sempre la stessa». Prende il mio bicchiere vuoto e va, entra nel pub. Resto solo. Silenzio e musica. Solo silenzio e musica. Dicono che quando uno muore vede tutta la sua vita passargli davanti. Sto forse morendo? Adesso? Vedo tutto. Le mattine fredde a far colazione con lei, con gli amici. Le serate gelide a baciarsi, mezzi nudi nel parcheggio che la macchina è troppo piccola. I progetti fatti, i fogli di carta scritti. Chi se ne è andato. Chi è rimasto. Chi rimarrà. La palestra. La scuola. Il lavoro. I colleghi che ti offrono il caffè. I tatuaggi. I ‘grazie’. Le lacrime. La saliva sulle labbra. I battiti che aumentano.

I battiti che aumentano.

Apro la bocca.

Vado a tempo e parlo.

Vado a tempo.

Parlo.

Respiro forte, vado a tempo e parlo:
«Le cazzate che faresti per dimostrare ‘sta cosa ti uccideranno. I fremiti, il sudore, le notti in bianco, la musica rap nelle orecchie, le lacrime e le ansie che bruciano. I chilometri che faresti per dimostrare questo amore, i film che guarderesti per sopprimere questo orrore. La roba che scrivi, che c’hai da fa, la gente che ti dà retta. Le notti in bianco, il bicchiere di birra notturno e la corsa il giorno dopo. La puzza di polvere sotto il naso, le foto da modificare, le locandine fatte in casa con i pixel che prendono vita. Le imprecazioni, i ricordi, i curriculum sopra e sotto i copioni scritti e cestinati. La roba che scrivi, che c’hai da fa. Le notti in bianco, le lei dimenticate ma manco tanto, la tastiera vecchia che scricchiola, l’aria pesante che puzza, la guerra che fuori gioca a nascondino, la gente che ti dà retta. Il cappuccino alla mattina con gli altri, il caffè subito dopo, le gomme da masticare per dominare l’ansia, che non è precisamente ansia da prestazione. È ansia di essere all’altezza. L’ansia. I caffè, la gente che ti dà retta. Il bicchiere di vita in questa birra di merda. La roba che scrivi, che c’hai da fa, la gente che ti dà retta, il sipario vecchio che profuma di nuovo, gli occhi che ti guardano, la gente che entra e esce, la fiducia che non c’hai ma che ti danno loro. Il bicchiere di birra notturno e la corsa il giorno dopo. Il sipario vecchio che profuma di nuovo».
Silenzio. Anche la musica sembra fermarsi. Sento una presenza dietro di me. È lei.
«Dovresti bere ogni sera se l’alcol ti porta a partorire queste cose»
«No, non sempre. Oggi è una serata fortunata, forse»
«Avresti il permesso di essere licenziato tutte le volte che vuoi. Dovresti camparci con questa roba, sai?»
«Camparci? Ma mi hai visto?»
«Ti ho visto, ti ho visto. Il tuo problema è che metti radici, sempre detto io»
«Radici? In che senso?»
«Tieni, prendi la birra che ti spiego. Questo giro lo offro io» e si siede sul muretto. Intanto la musica ricomincia. Io sorseggio la birra in piedi, gli occhi su di lei, ma lei sta zitta e mi guarda, quindi mi siedo e lei comincia a parlare. «Metti radici. Ti aggrappi alle cose poi, appena queste giustamente e per natura cambiano o cessano di esistere, resti bloccato, spiazzato. Come con le tue ex. Mi hai detto che hai buttato tutti i loro regali, no?». La guardo. È una trappola? «Certo» rispondo, «ma che c’entra adesso?». «C’entra eccome, bimbo. Credi in quello che fai, ma fallo per te, non per gli altri. Per te. Punto» dice, poi beve un sorso di birra.
Ha ragione.
«Ok, allora da oggi basta festeggiare per gli obiettivi raggiunti. Hai ragione. Basta sorrisone soddisfatto, basta entusiasmo e basta restarci male per le cose quando vanno male o comunque non come vorresti» dico. Lei smette di bere. «Non hai capito una ceppa. Non dico di smettere di provare emozioni, porca vacca. Dico che dal principio devi fare una cosa per te, non per gli altri. Capito? È normale poi rimanerci male. Devi provare a non mettere radici. A sentirti libero, non legato a qualcosa o a qualcuno, altrimenti non vivi più. Le persone cambiano, gli eventi cambiano. Tutto cambia bimbo. Anche tu. Quindi perché aspettarsi l’alba di sera?» e continua a bere. Fisso la birra come uno che ha appena ricevuto una botta in faccia. Rifletto. Perché aspettarsi l’alba di sera? «Non pensarci troppo», dice, «non ci guadagni niente. Almeno stasera non pensarci. Bevi e basta, stavolta non ti faccio la paternale» dice lei. «Capirai, ‘sta birra farà sì e no cinque gradi» preciso io. «Allora non ubriacarti di birra, ma di libertà. Di silenzio. Lo senti il silenzio? Ecco. Azzera tutto. Spegni il cervello. Svuota tutto. Bevilo ‘sto bicchiere. Bevilo tutto. Vedrai che starai meglio. Com’era? “Il bicchiere di vita in questa birra di merda”» e mi bacia, poi alza il bicchiere: «cin cin!».

Andrea Abbafati

Ho rovesciato il caffè e ho capito tutto

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«Ci fermiamo un attimo?».
Pausa, silenzio, lei si volta e mi guarda: «certo» risponde e allora ok, ci fermiamo un attimo.
Solita corsetta settimanale in due nel bosco, solo che oggi non ci sto né con la testa, né con il fisico. Lei capisce, in realtà ha già capito da quando siamo partiti. «Era ora» butta lì. La guardo, «”era ora” che?». «Era ora che ti fermassi. Mica sono scema, ti vedo e ti sento: stai a pezzi. Che hai, piccolo rottame che non sei altro?» domanda sorridendo mentre io mi trattengo per non rosicare. «Niente» rispondo, «sono solo stanco. Ci sediamo un attimo?», lei non risponde, si sdraia a terra con le braccia sotto la testa e lo sguardo verso l’alto, io faccio lo stesso, sollevato.
«Hai raggiunto il limite, eh?» dice lei improvvisamente. La guardo, capisco, sospiro: «sì». Ammettere una roba del genere per me sarebbe stato impossibile fino a ieri, poi finalmente ho capito. Ripeto tutto, ma stavolta ad alta voce: «ammettere una roba del genere per me sarebbe stato impossibile fino a ieri, poi finalmente ho capito», lei distoglie lo sguardo dal cielo e mi guarda, «spiega» dice. «Stamattina mi sono fatto un caffè prima di attaccare a lavoro, ero talmente distratto che ad un certo punto ho dato una botta alla tazzina rovesciando tutto» lei sorride, io continuo «non puoi capire le imprecazioni, mie e di mia madre che s’è vista la tovaglia nuova diventare un Pocket Coffee». Pausa. Scoppiamo a ridere entrambi ed eccola finalmente… la leggerezza. Lei riprende fiato con difficoltà, poi finalmente fa la domanda importante: «sì, ma che hai capito?», io scelgo bene le parole per risultare il più delicato possibile: «che non possiamo controllare un cazzo di niente» lei sorride mordendosi le labbra, «t’è caduta la corona, Oxford» dice, poi scoppiamo di nuovo a ridere. Toh, eccola di nuovo la leggerezza. «Dai, quando ci vuole ci vuole» mi giustifico io ma lei subito alza le mani al cielo «ma non sto dicendo niente! Anzi ti prego, continua. Mi piace quando fai il filosofo» e sorride di nuovo guardandomi con quegli occhi che, Dio Santo, vorrei vederla guardarmi per sempre. «Non faccio il filosofo» continuo con difficoltà resistendo alla tentazione di perdermi nel suo sguardo, «faccio il realista. Non possiamo gestire un cazzo della nostra vita. Non possiamo scegliere un cazzo, tutto quello che scegliamo è perché ci viene data la possibilità di sceglierlo. Non vogliamo veramente quello che abbiamo, lo desideriamo solo perché ce lo ritroviamo davanti come unica scelta» e qui mi ferma con una smorfia: «quindi non mi vuoi davvero? Non mi hai scelto, brutto rottame che non sei altro?» domanda delusa ma io la zittisco immediatamente mettendole un dito sulle labbra: «a te ti sceglierei ogni volta tutte le volte in qualsiasi altra vita», lei sorride «non si dice “a te ti”», io sorrido «vedi? Non possiamo neanche scegliere come parlare» e scoppiamo a ridere di nuovo per qualche secondo, poi torno serio: «fino a ieri mi dannavo per ogni cosa. Poi stamattina, il caffè. Ho rovesciato il caffè e ho capito tutto. Devo lasciare andare le cose, le persone, godermi le giornate, staccare ‘sto cazzo di internet» e subito lei mi fa l’eco «“staccare ‘sto cazzo di internet”!» e io continuo «mettere la modalità offline quando riposo, mangiare e bere qualcosa con gli amici ogni tanto e ‘sticazzi della dieta» e lei mi fa nuovamente l’eco «“e ‘sticazzi della dieta”!» e io continuo ancora «smetterla di specchiarmi che tanto non mi piacerò mai, smetterla di preoccuparmi per gli altri, smetterla di chiedere sempre se va bene qualcosa o se sta bene qualcuno. Chiedermi se sto bene io» e di nuovo lei con l’eco «“chiedermi se sto bene io!”» e io che continuo imperterrito «e dire qualche “vaffanculo” ogni tanto, qualche “sticazzi”, staccare la televisione, scrivere tanto, leggere fumetti, libri, riposare quando ho turni pesanti, non pensare sempre e soltanto ad arrivare da qualche parte e ogni tanto pretendere, che porca troia mica devo essere sempre io quello che sta ai comodi degli altri», lei stavolta resta zitta, ha capito che sono serio… io guardo in alto, il cielo è limpido e c’è un sole pieno che ci illumina totalmente. Apro leggermente la bocca e parto: «’sticazzi» e spalanco le braccia facendo cerchi di terra e sollevando polvere su polvere, lei scoppia a ridere, «’sticazzi!» e si alza, «’STICAZZI!» urla a squarciagola, «a noi non ce ne frega niente per oggi, abbiamo chiuso!» e salta da tutte le parti, fa le capriole, imita una scimmia, poi si sdraia nuovamente accanto a me, sudatissima. «Sei fuori forma, cocca» stuzzico io, «’sticazzi!» urlacchia lei. Di nuovo la leggerezza, di nuovo scoppiamo a ridere. Mi siedo, nonostante il sentirmi leggero mi sento strano, non pienamente libero. Lei mi imita, sedendosi al mio fianco e poggiando la testa sulla mia spalla. «Ieri volevo mollare tutto. Ho avuto un attimo di tentazione… volevo mandare a fare in culo tutto e tutti. I progetti, la gente che non mi dava retta e quella che voleva tanto spiegarmi che problemi aveva. Mi sentivo stanco, arrivato, senza più limiti. Lavorare, lavorare, lavorare… per cosa? Dove devo arrivare? Che tanto più sembra che faccio passi avanti e più perdo energie a dare un senso a tutto. “Ho chiuso” mi son detto, “mi ritiro”». Pausa. Silenzio. Lei trattiene il fiato: «e poi?» domanda. Poi ho pensato a lei. «Poi ho pensato a te» dico e il suo sguardo si illumina, «a tutti quelli che ho al mio fianco e ai quali amo offrire la birra, regalare braccialetti, scroccare la cena. Ho pensato a tutto e ho capito: ho solo bisogno di una pausa, di uno “’sticazzi” e di un “vaffanculo”, semplice semplice, senza sentirmi male cercando di essere sempre forte, senza sentirmi arrivato, senza dovermi per forza di cose sentirmi indistruttibile» lei capisce, sorride, «stamattina a lavoro mi hanno dato un furgone senza porta USB, quindi ho dovuto sorbirmi le canzonette di merda della radio… e sai cosa? L’ho fatto. Anzi, per un’oretta buona ho anche guidato a stereo spento, senza musica. Ascoltavo i rumori che entravano dal finestrino aperto. Ascoltavo me stesso», «poi t’ho chiamato io» aggiunge lei, «poi mi hai chiamato tu» confermo io. Sorridiamo. «Sei leggero cocco, lo sento» afferma lei, «hai semplicemente bisogno di sentirti così più spesso». Rifletto, annuisco, mi alzo. «Riprendiamo a correre?» suggerisco ma lei mi si para davanti, guardandomi dritto negli occhi: «oh» dice. «Oh» dico. Sorride: «riprenditi, affronta le cose con leggerezza». La guardo: «Leggerezza? Pesantezza casomai», «pesantezza?» chiede guardandomi, «sì, pesantezza, come una roccia». Mi guarda. «Come una roccia?» domanda, «sì, come una roccia» ripeto. Lei sorride alzando le spalle, «come una roccia», io insisto, sempre più convinto: «come una roccia, porca puttana». Lei annuisce, sorride uno dei suoi sorrisi enormi, poi: «oh sì… come una roccia, porca puttana!».
Mi bacia.

SOS

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L’una di notte. Probabilmente sto facendo la cazzata più insensata della mia intera vita ma poco importa. La faccio. Voglio farla.
Sto per spegnere l’auto ma improvvisamente dallo stereo parte una canzone rap strana, mai ascoltata prima. Ne seguo attentamente il testo… riesce a coinvolgermi, mi ispira e subito vorrei tornare a casa a scrivere per sfogarmi un po’ ma penso che qui ci sei tu, quindi resto. Mentre aspetto che finisca la canzone ecco che incomincia a pioviccicare. Le gocce scorrono lentamente sui finestrini dell’auto come volessero dirmi qualcosa, esortarmi a tornarmene a casa o a scendere dalla macchina.

La canzone finisce.

Spengo la macchina.

Apro lo sportello.

Esco.

Non piove forte ma fa un freddo cane. Esce vapore ad ogni pensiero che faccio. Sono praticamente una vaporiera.
La casa è lì davanti a me ma è tutto spento, anche le luci della sua camera.
Vai, si comincia.
Come nei libri che piacciono alle ragazze. Come nei film smielati che odio.

Mi chino.

Prendo un sassolino.

Lo lancio contro la sua finestra.

Tic.

Niente.

Di nuovo.

Tic.

Niente, di nuovo.

Di nuovo, di nuovo.

Toc.

«Quanto sei carino».

Sobbalzo.
Mi volto.
Lei è dietro di me, appena uscita da un cespuglio, come nei cartoni animati che amavo da ragazzino.
Il mio orgoglio si frantuma e la vergogna comincia a salire che è un piacere. «Che ci fai qua fuori?» riesco a balbettare. Improvvisamente, il caldo. «Stavo venendo da te» risponde lei. Eh? «Eh? In che senso?» chiedo io. «Stavo venendo da te a tirarti sassi alla finestra. Ammetto però che li avrei scelti un po’ più grossi dei tuoi…» risponde, poi sbotta a ridere e mi salta addosso abbracciandomi. «Ferma» insisto, «veramente stavi venendo da me? E perché?». Lei si stacca e mi guarda con un sorrisetto beffardo. «Perché no?». La guardo, lei continua a ridere. Tutto questo è umiliante. «Volevo farti una sorpresa» butto lì, «e avevo bisogno di te». «Avevi?» chiede, «ho» rispondo. Mi abbraccia di nuovo poi avvicina le sue labbra al mio orecchio sinistro e «tutto questo è molto romantico, carino» e scoppia a ridere di nuovo. E’ tutta una risata oggi. «Comunque piove» le dico, mentre la vergogna pian piano cala di intensità, «se restiamo qui ti bagni dalla testa ai piedi». Silenzio. Improvvisamente si blocca e mi fissa sbalordita. Passa qualche secondo, poi… si siede. La guardo confuso. «Che fai?» chiedo, ma lei non risponde quindi mi siedo al suo fianco e le poggio una mano sulla gamba. «Beh?» domando. Finalmente mi guarda, con le gocce d’acqua che le cadono dai capelli: «sono molto delusa. Davvero». Silenzio. «E’ da quando ci conosciamo che ti rompo le palle sul fatto che si fanno le cose in due… e ora?». Continuo a guardarla intontito senza capirci nulla. Lei capisce che non capisco quindi sbuffa e «mi bagno dalla testa ai piedi?» chiede, «mi?». Capisco. «Ci» mi corregge, «ci bagniamo! Perché “mi”? Tu sei impermeabile? Uff!». Uff. «Quando sbuffi così sembri un personaggio dei cartoni animati» le dico e subito lei comincia a prendermi a cazzotti alternandoli a minacce varie tipo “adesso ti faccio vedere io” e “ti graffio gli sportelli della macchina se mi paragoni nuovamente ad un cartone animato”. Poi si calma. Restiamo per un po’ in silenzio ad ascoltare il rumore della pioggia che ci bagna mentre il vapore che esce dalle nostre bocche fa disegni astratti per aria per poi sparire nel nulla.
«Comunque era un complimento» le spiego, «somigliare ad un cartone animato dico, era un complimento. Nel senso, sei buffa quando sbuffi in quel modo». Non l’avessi mai fatto. Mi guarda. La guardo. «Hai il naso grosso» sbotta improvvisamente. Sorrido. «Non hai nemmeno i capelli» aggiunge. Continuo a sorridere. «E poi sei anche stupido» conclude. Scoppio a ridere. «Lo sai che non mi scalfisci minimamente, vero? Sei troppo innocente per ferirmi a parole. E sai anche che i capelli me li rado, stupida» le spiego e subito lei trattiene il respiro, si morde le labbra e… «hai ragione. Non so offenderti. Hai perfettamente ragione». Mi rilasso. Ha gettato la spugna. Finalmente possiamo stare tranquilli.
«Non riesci nemmeno a fare una sorpresa che subito vieni sgamato».
SBEM. Lampo a ciel sereno. «Sei una stronza» dico. «Lo so» risponde lei.
Silenzio. La guardo. Mi guarda. Scoppiamo a ridere. «Ho vinto io!» dice lei tutta contenta. Sì, hai vinto tu, bella mia. Vinci sempre tu.
«Ha smesso di piovere» mi fa notare e subito si accovaccia a me, «se domani avremo la bronchite sarà esclusivamente colpa tua» continua sorridendo. «Comunque, come mai questa sassaiola? A cosa devo il piacere?» mi domanda mentre mi stringe forte a sé. «Diciamo che era un SOS». «Un SOS? Addirittura?». «Sì. Un SOS bello potente» concludo. Sì, un SOS veramente bello potente. Lei mi stringe sempre più forte. «Spara allora» dice, poi resta in attesa pronta ad ascoltare. Respiro. Mi avvicino lentamente a lei, poi… «BANG!». Stavolta è lei a sobbalzare, «sei veramente un cretino! Stupido! Stai facendo di tutto per allungare il brodo e tenermi appesa alle tue labbra… sei più noioso della tua serie tv sugli zombie preferita che ormai fa puntate di cinquanta minuti basate su colpi di scena inesistenti!» e ricomincia a prendermi a cazzotti. Io rido. Lei ride. Ricomincia a piovere. «Sono venuto perché amo abbracciarti e in una situazione di pericolo o di indecisione penso immediatamente a questo. Al fatto che amo abbracciarti» dico mentre la pioggia cerca di coprire le mie parole, quindi alzo leggermente la voce fregandomene del fatto che ormai si son fatte le due. «Ho una domanda da farti» annuncio e subito lei mi concede la sua attenzione alzando il sopracciglio: «spara» dice, «NO! Non farlo! Dimmi… DIMMI!» si corregge subito e io faccio veramente fatica a trattenere la risata per quanto è bella, ma il momento è serio: «non hai mai la paura improvvisa di restare da sola? Non pensi mai che magari un giorno ti sveglierai e ci sarai solo tu? Senza me… senza le persone che ti hanno accompagnata fino ad oggi… tu. Solo tu». Silenzio. Riflette. «Sola tipo come in una di quelle storie apocalittiche che piacciono tanto a te?» chiede. «Sì, anche» rispondo io, «più o meno dai. Facciamo che ti svegli sola, ma con la gente attorno. Cioè io ci sono, anche i tuoi amici… ma l’affetto che ci contraddistingueva no. Sei sola. Scopri improvvisamente di aver lottato per creare qualcosa ed essere stata l’unica a crederci e a volerla portare avanti davvero». La sento che pensa per qualche secondo poi fa una smorfia disgustata: «brutto» mormora. «Brutto sì» concordo, poi la stringo sempre più forte. «Beh… partendo dal fatto che se credo in qualcosa la porto avanti comunque… capita di restare da soli. E’ capitato, sta capitando e capiterà. Ma una volta presa una strada si deve proseguire, quindi se proprio mi ritroverò da sola vorrà dire che lotterò per sopravvivere come ho sempre fatto» spiega. «Sta alla base di tutto, no? Fa sicuramente paura… ma fa parte dell’animo umano. Ad un certo punto secondo me bisogna diventare egoisti, pensare prima a sé stessi e andare avanti, altrimenti si muore da soli. E deve essere veramente brutto morire da soli». Rifletto su ciò che ha appena detto mentre prende fiato e continua: «non so cosa ti sia successo ma se vuoi puoi approfittare del fatto di non essere solo e di avere me al tuo fianco» dice mentre mi stringe con una forza inaudita, «so quanta passione metti in tutto quello che fai… sei tale e quale a me, per questo ci prendiamo così bene. Pensiamo che tutti la pensino come noi. Siamo convinti che tutti siano disposti a sacrifici immensi per portare avanti la causa e restiamo sempre a bocca aperta come dei fessi quando scopriamo a nostre spese che non è così». La ascolto con attenzione e mi ritrovo nella descrizione: un fesso a bocca aperta. Mi ha capito. Mi capisce da sempre. Lei c’è e prende nuovamente fiato come se dovesse immergersi dentro di me per scovare la radice del problema: «potrai venire tutte le notti alla stessa ora qui e lanciarmi massi contro il vetro ma io sarò saltata fuori dalla finestra prima del tuo arrivo ogni volta, perché ti capisco. Perché non sto mai ferma ad aspettare, proprio come te. Siamo simili. Mai immobili. Neanche adesso: seduti su un prato sotto la pioggia, eppure mai stati così in movimento come ora. Ecco perché ti capisco: siamo soldati nella stessa guerra. Ci puliamo le ferite insieme perché sappiamo che se non ci medichiamo tra di noi siamo belli che spacciati».

Penso. Lei mi guarda. Io penso e lei mi guarda.

«Dove t’ho trovata?» domando. Lei ride. «Se non la smetti di fare il fesso ti lancio un sasso in faccia». La delicatezza. «Allora? Soddisfatto della risposta?» chiede. «Assolutamente. Un SOS magnifico» rispondo, «grazie. Davvero».  Silenzio. Lei solitamente odia i miei grazie ma questa volta non sembra voler dire nulla. Restiamo a guardarci in silenzio forse per ore, magari per qualche minuto, poi lei si alza, io faccio altrettanto, ci guardiamo, ci abbracciamo e da così, abbracciati, lei improvvisamente mi sussurra all’orecchio, con la sicurezza di chi c’è: «di niente, soldato».

Andrea Abbafati

Occhi sporchi

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«Tu hai gli occhi sporchi» dice.
«Eh?». “Eh?” è l’unica cosa che mi viene in mente per rispondere ad un’affermazione del genere.
«Hai gli occhi sporchi», ripetere tecnicamente non varrebbe, ma lei può. «P-può da-può darsi» balbetto, poi continuo ad osservarla. «Sai» dice lei «se hai gli occhi sporchi ti sembra tutto sporco». Silenzio. «Andrebbero puliti quegli occhietti». “Occhietti”: uno dei termini che odio di più al mondo, mi immagino sempre un volto enorme con due occhi minuscoli, quasi inesistenti… l’orrore… ma la sua voce ha l’incredibile potere di trasformare le cose schifose in quasi belle e allora sì, ho “gli occhietti”. «Beh… non so che dirti» butto là e lei subito, quasi avesse la risposta pronta «non sai che dire perché non vedi bene. Se hai gli occhi sporchi non vedi tutto nella sua forma, automaticamente non sai commentare, descrivere, parlare, vivere». Si alza. «Bisogna pulire quegli occhietti» dice, poi mi si avvicina, io ancora seduto la osservo. «E come?» chiedo, quasi temendo la risposta. «Chiudendoli un po’» dice lei. «Facendoli riposare. Li usi troppo. Stai troppo attento ai dettagli, li fai girare spesso. Vortici di curiosità. Ci pulisci gli angoli, con quegli occhi. Che pretendi poi? Che non siano sporchi?». Continuo a guardarla. Lei in piedi, bella, io seduto sul muretto, capelli rasati che tutti scambiano per calvizie e una bella miopia che mi fa vedere le cose in modo distorto. “Hai gli occhi sporchi” ed è subito chiarezza. Tutto è chiaro. Tutto si vede meglio. «Hai ragione. Di nuovo» dico, lei sorride presuntuosa. «E che t’aspettavi?» fa, poi si inginocchia sul muretto e mi abbraccia. Io la stringo più forte che posso e me ne esco con una frase che raramente dico: «mi aiuti a pulirli, ‘sti occhi?». Mi guarda. Ha lo sguardo pulito. Lo sguardo che pulisce. Le orecchie che ascoltano. Le labbra sincere, pronte a salvare. I capelli lunghi, che riscaldano e profumano di buono. Lentamente, le sue labbra si aprono ed esce la salvezza: «certo, piccolé».

Andrea Abbafati

Rosso

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Ha tipo appena piovuto e la strada è bagnata, stamattina ho lavato il furgone con cui lavoro e ovviamente oggi il tempo ha deciso di far piovere, tipo quando decidi di uscire a maniche corte a settembre e improvvisamente diventa dicembre così di botto.
Sto fermo in attesa che il semaforo diventi verde e mi passano in mente dei pensieri, come sempre. Davanti ho l’autobotte dell’Acea che mi rallenta il giro e mentre mi preparo a togliere il freno a mano e mettere la prima mi guardo attorno: un sacco di gente, un sacco d’aria, un sacco di luci (ma è già Natale?), un sacco d’ansia, un sacco di tutto. Il mio sguardo torna sul semaforo: ancora rosso… ormai sembra passata un’infinità, ma è ancora dannatamente rosso. Mi mancano solo tre consegne e poi me ne torno a casa, posso aspettare e portare pazienza, in silenzio.
Passano un sacco di belle ragazze, ma nessuna c’ha il sorriso tuo. Che culo. Certe volte penso che amare, o almeno cercare di farlo, sia umano, istintivo: un’azione che la nostra anima fa per proteggersi… d’altronde, chi può sopravvivere da solo?
“Gli occhi sono due per diventare quattro e la bocca è una per diventare due!”. Mh. Non è colpa mia, è l’attesa che fa diventare scemi.
A tal proposito guardo di nuovo il semaforo: rosso.
Prendo il cellulare, attivo la connessione dati per mandare qualche messaggio ma la prima cosa che faccio è vedere se mi hai scritto e ovviamente non mi hai scritto quindi spengo la connessione dati poso il cellulare e comincio a ripetermi a mente qualche pezzo di copione giusto per mantenere attivo il cervello, solo che la cosa è talmente potente che non si limita alla mente e via anche di voce ma sforzo troppo, tossisco, lancio qualche imprecazione (a mente però) e guardo di nuovo il semaforo.
Rosso.
Non ho mai odiato così tanto un colore in vita mia. E pure l’autobotte dell’Acea è ad alto rischio odio tanto che vedo già del vapore acqueo che esce dai finestrini. Scherzo.
Penso che ti penso e che sono talmente ridicolo nel pensarti che quasi quasi continuo a ripassare la cazzo di parte così una parte di me potrà distrarsi e rilassarsi. Forse.
Rosso.
Cerco di non guardare il semaforo. Spesso il tempo più lo attendi e più si fa attendere.
Rosso.
Niente, quel dannato colore continua ad attirare il mio sguardo e allora decido che vaffanculo, mi ripeto l’intero copione a memoria. Nah, non funziona. Forse dovrei spegnere il motore. Forse è rotto il semaforo. Forse è la dannata autobotte. Nah.
Rosso.
Penso che appena tornerò a casa dovrò scrivere qualcosa sul colore rosso, o sul semaforo, o sull’autobotte. O su te. Mh. Sull’autobotte. Scriverò qualcosa sull’autobotte.
Rosso. Neanche a perderci tempo sperando in qualche cambiamento. Comunque ultimamente penso spesso a come sarebbe avere un figlio (da te?), a creare una famiglia (con te?), a scrivere (di te?) e ci penso talmente tanto che già mi hai rotto le palle.
Scherzo.
Rosso.
Penso che per oggi può bastare: ho pensato troppo. Accendo la radio che in realtà era già accesa quindi mi limito a togliere il “mute” e parte una canzone energica, quasi commovente, che mi ricorda… lasciamo stare. Oh, comunque oggi t’ho pensata parecchio. Mamma mia quanto eri bella. Vorrei scriverti ma mi sa che non ho più il numero, l’ho cancellato per sbaglio. Non è vero. Cioè, non è vero che l’ho cancellato per sbaglio. In realtà non l’ho mai avuto il numero tuo.
Ma santo Dio! Mi rendo conto solo adesso che pensandoti m’è scappato un sorriso e ammetto che rosico. Ultimamente rosico spesso. Rosico quando sbaglio qualcosa, quando qualcuno non si accorge dell’impegno che metto nel fare qualcosa e rosico pure quando vorrei fare qualcosa ma non riesco. Qualcosa. Qualcosa ovunque. Come te.
Alla radio la canzone finisce e ne comincia un’altra, io già ho in mente cosa scrivere appena sarò a casa e già degusto il ticchettio dei tasti della tastiera che riempiono la mia stanza e tu sul letto che… oh ma che palle.
Verde.

Andrea Abbafati

 

 

Breve monologo sull’amore

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<<“L’amore è, due punti”. L’amore è:>>
ci pensa su. <<Mmh. “L’amore è, due punti”>>, continua a pensarci su. <<Mmh>>. Non gli viene in mente niente. Sospira. <<Uff>>.
Passa il tempo, passano le amicizie, gli amori: ieri amava lei poi lei è partita, puff, andata, oggi ama un’altra. Passano le relazioni, il tempo, l’inverno… è estate. Niente.
<<Mmh>>. Poi l’idea: una musica nuova. Scorre la lista. <<Mmh>>, mmh. Niente. Ancora niente ma ecco che “drin drin”, messaggio vocale. Nonna ha imparato ad usare Whatsapp ma può fare soltanto gli audio perché non riesce a scrivere: “Ciao lello! Me so fatta Uazzap!”. Ride.
L’idea. Mani sulla tastiera, musica nelle orecchie.
<<L’amore è nonna che impara qualcosa di nuovo per starti più vicino e nonno che quando ti vede urla “gioventù!”. Correzione: l’amore sono entrambi i nonni che quando ti vedono all’unisono urlano “gioventù!”. L’amore sei tu. L’amore sono mamma e papà che sanno che ti alzi alle quattro e quando non sentono il cazzo di trambusto che fai ogni mattina a quell’ora si preoccupano e vengono a svegliarti, poi magari tu ti sei già alzato come un ninja e loro rimangono fregati e si sono alzati per niente.
L’amore è ammettere che qualche volta ti hanno salvato il culo svegliandoti all’ultimo. L’amore è tuo fratello che ti ruba i DVD lasciando il caos sulla scrivania. L’amore è qualcuno che ti scrive “pensa ad Andrea”. L’amore è avere miliardi di lettere, foto, pensieri, pezzi di cuori che pulseranno per sempre. L’amore è avere più di una famiglia adottiva, gente che t’ha scelto nonostante tutto. L’amore è avere l’amore e darlo in giro, spargerlo, coltivarlo. L’amore è una canzone leggera, profumata, che sa di danza classica, una coreografia, un copione… una matinée ripetuta per due, la stanchezza, il turno di notte, il non riuscire comunque a dormire.
L’amore è pensare continuamente alle persone che abbiamo perso perché ci mancano. L’amore è mandare a quel paese per il nostro bene le persone che abbiamo perso anche se ci manca terribilmente il loro profumo; l’amore è decidere di accogliere quelle persone nel caso un giorno decidessero di tornare.
L’amore è avere persone importanti, piccole ed indifese al proprio fianco, guardarle crescere mentre si innamorano, sperare non si dimentichino mai di te. L’amore è proteggere.
L’amore è promettere un monologo breve ma scrivere un poema lungo quanto la canzone che ci ispira riascoltata per sette volte di fila. L’amore è non darsi un tempo, non respirare, trattenere il fiato, non lavarsi se necessario, ingozzarsi di menefreghismo e concentrarsi su qualcosa, dedicarci la vita.
L’amore è stare male tutto il giorno e risollevarsi con un pensiero>>.
“Fine”, pensa.
Sorride.
Fine?

Andrea Abbafati