Ho rovesciato il caffè e ho capito tutto

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«Ci fermiamo un attimo?».
Pausa, silenzio, lei si volta e mi guarda: «certo» risponde e allora ok, ci fermiamo un attimo.
Solita corsetta settimanale in due nel bosco, solo che oggi non ci sto né con la testa, né con il fisico. Lei capisce, in realtà ha già capito da quando siamo partiti. «Era ora» butta lì. La guardo, «”era ora” che?». «Era ora che ti fermassi. Mica sono scema, ti vedo e ti sento: stai a pezzi. Che hai, piccolo rottame che non sei altro?» domanda sorridendo mentre io mi trattengo per non rosicare. «Niente» rispondo, «sono solo stanco. Ci sediamo un attimo?», lei non risponde, si sdraia a terra con le braccia sotto la testa e lo sguardo verso l’alto, io faccio lo stesso, sollevato.
«Hai raggiunto il limite, eh?» dice lei improvvisamente. La guardo, capisco, sospiro: «sì». Ammettere una roba del genere per me sarebbe stato impossibile fino a ieri, poi finalmente ho capito. Ripeto tutto, ma stavolta ad alta voce: «ammettere una roba del genere per me sarebbe stato impossibile fino a ieri, poi finalmente ho capito», lei distoglie lo sguardo dal cielo e mi guarda, «spiega» dice. «Stamattina mi sono fatto un caffè prima di attaccare a lavoro, ero talmente distratto che ad un certo punto ho dato una botta alla tazzina rovesciando tutto» lei sorride, io continuo «non puoi capire le imprecazioni, mie e di mia madre che s’è vista la tovaglia nuova diventare un Pocket Coffee». Pausa. Scoppiamo a ridere entrambi ed eccola finalmente… la leggerezza. Lei riprende fiato con difficoltà, poi finalmente fa la domanda importante: «sì, ma che hai capito?», io scelgo bene le parole per risultare il più delicato possibile: «che non possiamo controllare un cazzo di niente» lei sorride mordendosi le labbra, «t’è caduta la corona, Oxford» dice, poi scoppiamo di nuovo a ridere. Toh, eccola di nuovo la leggerezza. «Dai, quando ci vuole ci vuole» mi giustifico io ma lei subito alza le mani al cielo «ma non sto dicendo niente! Anzi ti prego, continua. Mi piace quando fai il filosofo» e sorride di nuovo guardandomi con quegli occhi che, Dio Santo, vorrei vederla guardarmi per sempre. «Non faccio il filosofo» continuo con difficoltà resistendo alla tentazione di perdermi nel suo sguardo, «faccio il realista. Non possiamo gestire un cazzo della nostra vita. Non possiamo scegliere un cazzo, tutto quello che scegliamo è perché ci viene data la possibilità di sceglierlo. Non vogliamo veramente quello che abbiamo, lo desideriamo solo perché ce lo ritroviamo davanti come unica scelta» e qui mi ferma con una smorfia: «quindi non mi vuoi davvero? Non mi hai scelto, brutto rottame che non sei altro?» domanda delusa ma io la zittisco immediatamente mettendole un dito sulle labbra: «a te ti sceglierei ogni volta tutte le volte in qualsiasi altra vita», lei sorride «non si dice “a te ti”», io sorrido «vedi? Non possiamo neanche scegliere come parlare» e scoppiamo a ridere di nuovo per qualche secondo, poi torno serio: «fino a ieri mi dannavo per ogni cosa. Poi stamattina, il caffè. Ho rovesciato il caffè e ho capito tutto. Devo lasciare andare le cose, le persone, godermi le giornate, staccare ‘sto cazzo di internet» e subito lei mi fa l’eco «“staccare ‘sto cazzo di internet”!» e io continuo «mettere la modalità offline quando riposo, mangiare e bere qualcosa con gli amici ogni tanto e ‘sticazzi della dieta» e lei mi fa nuovamente l’eco «“e ‘sticazzi della dieta”!» e io continuo ancora «smetterla di specchiarmi che tanto non mi piacerò mai, smetterla di preoccuparmi per gli altri, smetterla di chiedere sempre se va bene qualcosa o se sta bene qualcuno. Chiedermi se sto bene io» e di nuovo lei con l’eco «“chiedermi se sto bene io!”» e io che continuo imperterrito «e dire qualche “vaffanculo” ogni tanto, qualche “sticazzi”, staccare la televisione, scrivere tanto, leggere fumetti, libri, riposare quando ho turni pesanti, non pensare sempre e soltanto ad arrivare da qualche parte e ogni tanto pretendere, che porca troia mica devo essere sempre io quello che sta ai comodi degli altri», lei stavolta resta zitta, ha capito che sono serio… io guardo in alto, il cielo è limpido e c’è un sole pieno che ci illumina totalmente. Apro leggermente la bocca e parto: «’sticazzi» e spalanco le braccia facendo cerchi di terra e sollevando polvere su polvere, lei scoppia a ridere, «’sticazzi!» e si alza, «’STICAZZI!» urla a squarciagola, «a noi non ce ne frega niente per oggi, abbiamo chiuso!» e salta da tutte le parti, fa le capriole, imita una scimmia, poi si sdraia nuovamente accanto a me, sudatissima. «Sei fuori forma, cocca» stuzzico io, «’sticazzi!» urlacchia lei. Di nuovo la leggerezza, di nuovo scoppiamo a ridere. Mi siedo, nonostante il sentirmi leggero mi sento strano, non pienamente libero. Lei mi imita, sedendosi al mio fianco e poggiando la testa sulla mia spalla. «Ieri volevo mollare tutto. Ho avuto un attimo di tentazione… volevo mandare a fare in culo tutto e tutti. I progetti, la gente che non mi dava retta e quella che voleva tanto spiegarmi che problemi aveva. Mi sentivo stanco, arrivato, senza più limiti. Lavorare, lavorare, lavorare… per cosa? Dove devo arrivare? Che tanto più sembra che faccio passi avanti e più perdo energie a dare un senso a tutto. “Ho chiuso” mi son detto, “mi ritiro”». Pausa. Silenzio. Lei trattiene il fiato: «e poi?» domanda. Poi ho pensato a lei. «Poi ho pensato a te» dico e il suo sguardo si illumina, «a tutti quelli che ho al mio fianco e ai quali amo offrire la birra, regalare braccialetti, scroccare la cena. Ho pensato a tutto e ho capito: ho solo bisogno di una pausa, di uno “’sticazzi” e di un “vaffanculo”, semplice semplice, senza sentirmi male cercando di essere sempre forte, senza sentirmi arrivato, senza dovermi per forza di cose sentirmi indistruttibile» lei capisce, sorride, «stamattina a lavoro mi hanno dato un furgone senza porta USB, quindi ho dovuto sorbirmi le canzonette di merda della radio… e sai cosa? L’ho fatto. Anzi, per un’oretta buona ho anche guidato a stereo spento, senza musica. Ascoltavo i rumori che entravano dal finestrino aperto. Ascoltavo me stesso», «poi t’ho chiamato io» aggiunge lei, «poi mi hai chiamato tu» confermo io. Sorridiamo. «Sei leggero cocco, lo sento» afferma lei, «hai semplicemente bisogno di sentirti così più spesso». Rifletto, annuisco, mi alzo. «Riprendiamo a correre?» suggerisco ma lei mi si para davanti, guardandomi dritto negli occhi: «oh» dice. «Oh» dico. Sorride: «riprenditi, affronta le cose con leggerezza». La guardo: «Leggerezza? Pesantezza casomai», «pesantezza?» chiede guardandomi, «sì, pesantezza, come una roccia». Mi guarda. «Come una roccia?» domanda, «sì, come una roccia» ripeto. Lei sorride alzando le spalle, «come una roccia», io insisto, sempre più convinto: «come una roccia, porca puttana». Lei annuisce, sorride uno dei suoi sorrisi enormi, poi: «oh sì… come una roccia, porca puttana!».
Mi bacia.

Autoritratto (storia di una virgola)

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Bip bip. Bip bip. Bip bip. Bip–
Spegni la sveglia impostata al cellulare. L’ottava. Oggi è giorno di riposo. Oggi ti riposi.
La mente allenata a svegliarsi automaticamente alle tre e trenta del mattino, gli occhi che esplorano la stanza bagnata dal poco sole coperto dalle nuvole e la gola secca che non emette suoni.
«Ehm, ehm» provi a buttar giù. Bene. Le corde vocali sembrano rispondere. Tutto si muove, tutto funziona. Vivo anche oggi, metti i piedi giù dal letto. E’ tardi. E’ sempre tardi, anche se non hai nulla da fare per una volta. Per un giorno.
Nella stanza il disordine. Il portatile scarico, la batteria da cambiare, il carica batterie ancora attaccato alla presa elettrica, fogli sparsi sulla scrivania e fumetti ossessivamente posti in ordine numerico che appesantiscono le mensole di legno vecchie e coperte da pagine di mensili doppioni.
Ti rechi in bagno, apri l’acqua, ti sciacqui la faccia e ti guardi allo specchio. Barba incolta, capelli rasati, ciglia troppo grandi e un naso che sembra rotto ma che piace molto a molte. Le “mani da pianista”, come le ha sempre chiamate tua nonna ti carezzano il volto. Tale e quale ad ora. Sei tale e quale ad ora. Identico, spiccicato a come sei ora. Va tutto bene. In sala i tuoi si scambiano qualche battuta, ridono. Tuo fratello ti saluta con un cenno della testa. I nonni, di sotto, sono svegli dalle sei di mattina. Il cane ha fame e scodinzola davanti la porta. Fuori fa freddo, è novembre, manca poco a Natale. Tu, ancora in mutande, continui a guardarti allo specchio. Guardi il tuo corpo che cambia, che finalmente ti piace e che hai paura di veder rovinato, di nuovo. E pensi al passato. A ciò che è stato. A tutto quello che ti ha permesso di essere quello che sei ora.
Ti vesti. Fai colazione. Esci.
Fa freddo. Dalla bocca esce vapore misto a pensieri. Il tempo di un caffè e subito riesci a gestire la paranoie: ormai sei allenato. Hai parcheggiato l’auto lontano, così puoi passare del tempo con te stesso, camminando piano. E quanti saluti, quante strette di mano. Quante persone che a causa del tuo nome e cognome ti confondono per un altro.
La piazza è vuota, di questi tempi meglio stare a casa a passare il tempo libero. Qualche locandina affissa ti ricorda che è tempo di spettacolo. Il teatro forte, speranzoso, ricco di sogni e idee che non muore mai.
Ieri sera hai finito un fumetto nuovo e visto una puntata della tua serie tv preferita. Alimenti spesso il tuo cervello con storie scritte e raccontate da altri… il paradosso di chi scrive: per riposare e cercare l’ispirazione ci si nutre dei racconti urlati a squarciagola nel freddo vento invernale.
«Ciao bello, caffè al vetro o in tazza?» chiede la barista che non rispecchia assolutamente la ragazza dei tuoi sogni, quindi neanche ci provi. «Tazza, grazie» rispondi tu, poi «potrei avere il dolcificante al posto dello zucchero?». La linea è importante. Un caffè veloce accompagnato da qualche chiacchiera interessante spiccata da un chiacchiericcio noioso. Iniziano così le storie migliori. Finito il caffè paghi ed esci dal bar. La piazza continua ad essere vuota. Cammini. Decidi di attraversare sulle strisce pedonali e subito un signore che sembra aver fretta si ferma con l’auto e ti fa passare. Ringrazi. Lui sorride, poi riparte altrettanto di fretta. Passa una signora con le buste della spesa, si incrociano i vostri sguardi. Stavolta sei tu a sorridere, lei ricambia e abbassa la testa. Si vergogna? E’ davvero così intimo un saluto, di questi tempi? Più intimo della nudità?
Improvvisamente, un peso. Scansi leggermente la felpa che hai addosso e ricordi di avere al collo due collane. Pesano. Il peso dei sogni che si sente di più quando hai la testa vuota, rilassata, quando sei distratto. Il peso che ti ricorda che non si è mai da soli, una volta dato il via a qualcosa.
Acceleri il passo e ti ritrovi da solo, in mezzo ad una stradina.

Silenzio.

Respiri. Non hai paura.

Poi, da un vicoletto lì vicino, spunta una ragazzetta che dimostra quattordici, quindici anni. Canticchia tra sé. Si ferma un attimo, ti guarda, smette di cantare. I suoi enormi occhi marroni ti scrutano silenziosamente. Ha i capelli arruffatissimi e tra un capello e l’altro ti sembra di vedere un sogno incastrato che ancora non è riuscito a spiccare il volo. Avrà il suo tempo. Prima o poi riuscirà a districarsi da quei lunghi capelli e volerà lontano, ne sei sicuro e vorresti dirglielo ma lei, ancora concentrata su di te, ti precede disegnando sul suo viso con il pennarello dell’innocenza un sorriso sgargiante, pieno di luce. E’ già agosto?
E via. La piccola sognatrice continua il suo canto immersa tra i vicoletti di questo paese silenzioso. La guardi uscire dal tuo campo visivo canticchiando e saltellando, mentre tutt’attorno nulla è più grigio. Tutto è salvato.
Torni a casa. O meglio, prima torni alla macchina, poi torni a casa. E’ tardi. Vai in bagno e ti guardi allo specchio: le pupille dilatate come se avessi assunto qualche droga, le mani raggrinzite a causa del freddo, il cuore ben coperto e al caldo così come lo stomaco, in subbuglio. Sorridi. «Che poi, ti affanni tanto a cercare un motivo, un perché, quando basta stringere forti i pugni» dice il tizio allo specchio. Ha più capelli, qualche anno meno di te, meno esperienza, il naso che sembra rotto. «Ti fai trasportare troppo. Respira. Sii calmo. Non puoi salvare il mondo» continua. «Non posso salvare il mondo?» sussurri, sorpreso. «E allora che ci sto a fare?». «Fai parte della storia» dice lui. «Sei la virgola che se messa al posto giusto può dar senso alla frase». Sorride, «e ti prego… fai bella figura. La grammatica è importante» e se ne va. Lo specchio resta vuoto. Capisci. Anche il vuoto ha una storia. Anche le assenze portano avanti il racconto, per quanto male possano fare.
Le collane improvvisamente sembrano bruciare: una rappresenta un tornado, l’altra la libertà. Le stringi talmente forte che quasi le mani iniziano a sanguinare. Via dallo specchio, il riflesso non serve. Apri un’anta dell’armadio e ne tiri fuori un mantello rosso sgargiante che indossi immediatamente. Salvare il mondo magari no, ma nessuno ha detto che tu non possa essere un supereroe, giusto?
Nessuna maschera, trasparente come pochi, pugni ben stretti e gambe pronte a scattare. T’aspetta il mondo. Una storia da raccontare. Un falò e tutti attorno, per proteggersi l’un l’altro.
Il mondo no, non riuscirai a salvarlo… ma sorridi ugualmente, deciso, pronto.
Con coraggio, paura, dedizione e timore, farai sicuramente il possibile per far finire la storia nel miglior modo possibile, sfruttando tutto il potere che ti è concesso.

Finalmente un motivo. Finalmente un perché.

Riuscirai in tutto, virgola.

Andrea Abbafati