RacCorto n. 1 – Repulisti

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Prima regola per un ottimo ‘repulisti’: prendere appuntamento dal meccanico il giorno di riposo per sistemare un difettuccio al motore, presentarsi all’orario pattuito e ricevere la prima buca della giornata. “Ho il ponte rotto, non posso sollevarti la macchina. Ripassa un altro giorno”. Questo ti darà la scusa per riorganizzarti totalmente l’intera giornata, tra un’imprecazione e l’altra quando ti accorgi che mentre te ne vai il meccanico comincia a sollevare tranquillamente il ponte, ma non prima di un buon caffè. Quindi, come vuole la seconda regola per un ‘repulisti’ che si rispetti, vai dal primo bar che trovi sulla strada del ritorno, ordini un caffè e osservi la schiuma disegnarti qualche pensiero in testa mentre l’odore di caffè appena fatto si propaga per tutto il bar che sembra più che altro un autogrill di bassa lega, ed in quel momento ti ritorna in mente un pezzo di una canzone che hai ascoltato qualche giorno fa: “chi fa il caffè più buono anche nei peggiori bar”. Leggi tutto “RacCorto n. 1 – Repulisti”

Di getto

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Prego mi dia un caffè ristretto grazie, che c’ho voglia di pensare. Sono uscito un po’ perché voglio farmi scivolare un po’ di cose dal groppone. C’ho la testa piena, non funziona lo sciacquone.
Sono stato poco fa in Chiesa, ammetto mi mancava. Mi ricorda i bei tempi, quando lei ancora m’amava. Quando lo sciacquone funzionava e la testa era pulita, quando c’era poca certezza nell’affrontare una salita.
“È la vita”. Sento sempre la stessa frase: “è la vita”; ‘sto caffè fa schifo, barista. Un altro, per favore.
Mi fa male la testa, non è che c’hai qualcosa? Da mandare giù con l’acqua. Sì, qualsiasi cosa.
Mi prude il braccio, sento prurito sul tatuaggio che ormai funge da cicatrice di Harry Potter. Brucia quando s’avvicina il male. Il secondo caffè fa più schifo del primo, barista. Complimenti, c’hai un talento naturale.
Mi sento spento. Giuro, mi sento spento. Sto in ferie senza obiettivi se non quello de riposa’, ma mi guardo intorno in cerca d’avventura, metti caso capitasse sotto tiro qualcuna da bacia’.
C’ho un tornado nel cuore, me l’han detto tutti, solo che non capisco come cazzo si ferma. Fa un rumore strano ogni tanto, tipo “brum brum”. Non so… c’avrà un motore. Vorrà partì? Ma dove deve andare… ma dove vuole andare… che le radici sono forti e ci tengono fermi qua, io, il tornado, il cuore, il rumore.
Il cervello sta fermo, zitto, muto. C’ho la testa piena, non funziona lo sciacquone.
Tlic, tlac. Non funziona lo sciacquone.
Eppure io ti giuro, bari’, ti giuro che volevo solo ama’. Voler bene. Volevo solo voler bene. Un abbraccio, cazzo, un abbraccio solo, invece ho preso più schiaffi che saluti. Ma dai. Mica mi sto lamentando, ma che dici. No, non voglio certo fare la vittima, per carità. Cercavo solo qualcuno con cui parla’. E perdonami il dialetto che esce fuori ogni tanto da questa dizione perfetta… perdonami pure la rima che fa capolino ogni tanto con quella capoccetta… ma oggi mi sento ispirato. So’ stato in Chiesa, ho chiesto d’esse perdonato.
E te giuro che scoppierei a piagne come un regazzino… no scusa, hai ragione: e ti giuro che scoppierei a piangere come un ragazzino… abbraccerei pure te, bari’, pure se fai il caffè che fa risalire il cenone di capodanno. T’abbraccerei, poi uscirei e abbraccerei tutti quanti. Tutti, nessuno escluso. Perché c’ho un peso dentro, bari’, ma un peso dentro che non poi capì… a tratti sverrei, me butterei per terra… strillerei de tutto… così, giusto pe’ famme abbraccia’. Scusa. Così, giusto per farmi abbracciare.
Che non capisco un cazzo è risaputo. Come è risaputo che quando non parlo, scrivo. Che c’ho un cuore grande me lo dicono in molti, che c’ho i pensieri intrecciati me lo dicono tutti. Un altro caffè, bari’, ma stavolta decente, che mentre parlo mi si secca la lingua e oltre il caffè da bere non voglio niente. Serve caffeina. C’ho un sonno travolgente che me tira pe’ i capelli… cerco de resiste ma proprio non s’arrende. C’hai presente quando c’hai il cuore che batte a mille e regaleresti il conto in banca al primo fortunato? Ecco, non proprio a quei livelli, ma più o meno me sento così: rinato. Perché so’ triste, mica mento, ma me sento pure tanto strano, libero, leggero, ma stai attento… non dico mica che so’ partito di capoccia… dico solo che c’ho il cuore che fa bisboccia, col cervello, coi polmoni, con la bocca e tutto quanto. Non coordino più niente, sto fermo zitto e sciallo, in attesa del responso di chi giudica per professione. Che di dita puntate ne siamo pieni, bari’, pure te, che fai il caffè più schifoso del mondo. Ma suvvia, diciamocelo, alla fine che ce frega? Che tanto tra un dialetto e una rima baciata ne usciamo felici, pure con tre caffè che fanno schifo perché sì, bari’, io parlerò pure da mezz’ora, ma ‘sto terzo caffè fa schifo quanto i primi due e sai che te dico? Che mi lascio andare. Non me ne frega ‘n cazzo bari’, del dialetto, della dizione, della dieta, degli altri. Pure dei caffè. Te li pago lo stesso, imparerai. Oppure continuerai a farli così ma li berrò lo stesso, perché m’hai fatto capì che c’è di meglio al mondo. E mica cazzi. C’è di meglio al mondo bari’, pe’ ogni delusione che ce capita. Pe’ ogni amore perso. Pe’ ogni amico che t’abbandona. Ce sta di meglio al mondo, è sbagliato accontentasse. No? Ah… sei d’accordo con me, bari’? Meno male. Mi sento meglio, meno solo ma no, tranquillo, non t’abbraccio, non t’abbraccio.
Bari’, io vado. M’aspetta un mondo là fuori. Un mondo che m’aspetta.

Vado, pago, esco, apro la porta e resto sull’uscio. Mi volto. L’assassino di caffè mi fissa curioso.

Bari’, guarda che lo so che pensi, sa’? Pensi che mento. Pensi che il mondo continuerà ad aspettarmi ancora per molto, molto tempo. Ma che credi? Che parlo di getto? Così, per frustrazione? Me fai così debole, bari’? Io so’ un supereroe, che te credi? Pensi che sprecherò pure questa occasione?

Ride sotto i baffi, l’assassino di caffè. Lo guardo e subito un po’ d’ansia mi sale. E se avesse ragione? Se fossi in grado di sprecare anche quest’occasione? Eccolo là che ride. Ride di gusto.

Ridi. Ridi pure bari’. Puoi pensa’ quello che te pare. Io esco. Il mondo m’aspetta, mica il contrario. Parlerò pure di getto, in dialetto, a tratti balbettando, ma c’ho un cuore grande bari’. Quindi ridi, ridi pure, che tanto te l’ho detto: non me ne frega ‘n cazzo bari’. Non me ne frega ‘n cazzo!

Andrea Abbafati

La sindrome del bagnante

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Guardo l’orologio del furgone: segna un’ora avanti, quindi tecnicamente sono le ore precedenti rispetto l’ora segnata sullo schermo. Sono in ritardo, tanto per cambiare. Davanti a me la fila ferma di macchine in attesa che passino i supereroi a due ruote: gara ciclistica in corso, tutto bloccato. Di domenica mattina, sotto il sole cocente nel punto preciso in cui non c’è ombra manco a pagarla.
Ho già dimenticato l’ora ma evito di guardare l’orario sbagliato dello stereo: è una giornata di merda e come tale non ha orari. Lo sanno tutti. Quando una giornata inizia male non ha senso guardare che ora è perché il tempo si ferma e dura più a lungo, non finisce più e il momento del riposo non esiste, quindi tanto vale continuare a non guardare in che fascia oraria del giorno mi trovo.
Ho poche ore di sonno sul groppone e non riposo decentemente da troppo tempo, mi bruciano gli occhi, ho fame e non ho neanche fatto colazione. Ho un giramento di coglioni non indifferente. Da record. Mi guardo attorno sperando si materializzi improvvisamente un qualcosa, una via di fuga, un motivo per togliermi la divisa di dosso e buttarmi a capofitto in qualche avventura senza pensare ad un cazzo. Troppo volgare. A niente. Senza pensare a niente. La fila comincia a districarsi e improvvisamente mi squilla il telefonino.
È lei. Rispondo. «Oh». Silenzio. «Oh» ripete lei. «Beh?» chiedo io, «Che è successo?», «ma che risposta di merda è “oh”? Io ti chiamo e tu mi rispondi “oh”?» dice lei con quel tono magico, poetico e dolce che mi ricorda quei film horror in cui già al primo minuto schiatta qualcuno. È incazzata. Pure lei. «Scusa» mi riprendo subito io, «è che sto fermo in mezzo al traffico, aspetto che i principi in bicicletta decidano chi deve vincere la gara», intanto le auto davanti cominciano a muoversi quindi mi accingo ad avanzare lentamente. «Ah, capito» butta giù lei, «tra quanto stacchi?», «sto tornando ora per partire con il secondo giro, faccio giusto in tempo a prendermi un caffè da qualche parte penso», «ottimo» dice lei, «fermati al prossimo bar, sono dietro di te». SBEM. «Che?» domando io e lo sguardo mi va automaticamente sullo specchietto laterale sinistro e la vedo: lei, che lampeggia come una matta facendo smorfie con la bocca. Mi esplode il cuore. «Avevo bisogno di te, bella mia» sussurro più a me stesso che a lei, «eh? Che hai detto?» chiede lei, «niente… imprecavo contro i ciclisti. Senti appena arriviamo al bar ci fermiamo, ok?», «ok, tesssssoro» urla lei e lo sguardo mi torna allo specchietto e posso guardarla sfoggiare la sua bella lingua rossa con sguardo da smorfiosa.
Finalmente la strada si libera, avanzo per un po’ con lei al seguito, poi svolto a destra e mi fermo davanti ad un piccolo baretto della zona. Parcheggio, scendo e chiudo il furgone, lei è stata più veloce di me e mi aspetta in piedi, poggiata alla sua auto. «Buongiorno scemo!» dice con la grazia di una che riesce in modo tremendamente facile a superare un’incazzatura potente. Mi avvicino e faccio per abbracciarla ma lei mi ferma con una mano sul petto e mi guarda attentamente negli occhi: «stai incazzato nero. E sei stanco» dice scrutandomi attentamente, io sorrido stupito… volevo solo abbracciarla. «Volevo solo abbracciarti» ammetto, «perché devo essere sempre quello incazzato e stanco?» domando e lei risponde immediatamente con un «uff». “Uff”? «Cominciamo davvero con le domande complesse alle undici di mattina senza neanche aver preso un caffè?». Giusto… le undici; l’orologio segnava le dodici meno un quarto, quindi erano le undici meno un quarto, ovviamente quindici minuti dopo sono le undici, logico.
Decido di accantonare la questione “uff” e la accompagno nel bar. Il barista ci chiede cosa vogliamo, lei ordina due caffè, io sto zitto e la guardo. Non ho mai creduto nell’amore, nella bellezza fine a sé stessa, ma lei mi completa. È talmente spontanea, talmente piena di bene che non capisco come facciano gli altri a non innamorarsene.
Mi sta guardando. «Forza. Caffè ordinati, adesso possiamo affrontare i discorsi seri» dice. Comincio. Sono un fiume in piena, sicuramente adesso le dirò tutto quello che mi circola nella testa e nel cuore, cioè «niente». Niente? «Niente?» domanda, «ma come niente? Ti ho guardato imprecare contro i ciclisti quando non sapevi che ti stavo osservando. Sono anche quasi sicura tu ne abbia mandato a fanculo qualcuno… e adesso non hai niente?». Ops. Beccato. Prendo fiato. «Senti, non voglio incazzarmi, ok? Non devo incazzarmi, va bene? Ultimamente mi è stato fatto notare che mi incazzo sempre. Autocontrollo, ecco cosa mi serve. Devo riuscire a gestire la rabbia. Calmarmi. Devo prendere le cose più alla leggera, tutto qua». Silenzio. Arrivano i caffè ma lei sembra non accorgersene: mi guarda. «Quindi non puoi parlarne con me?». Steso. «Ma certo che posso parlarne con te… che c’entra? Solo che adesso volevo provare a calmarmi da solo, ad affrontare la cosa tra me e me ecco, tutto qua». «Mandando a fare in culo i ciclisti» sottolinea lei, «no… no! Non ho mandato a fare in culo nessuno!» mento io ma niente, lei scoppia a ridere. Sbuffo, so già che durerà per molto, prendo il caffè, lo condisco di dolcificante e bevo, lei fa altrettanto con lo zucchero di canna ma aspetta che la risata le passi, poi beve tutto di un sorso.
«Per una volta vorrei sentirmi come Cannavaro nel 2006 quando ha alzato la coppa» butto lì.
Silenzio. Lei posa lentamente la tazzina sul bancone, gli occhi spalancati fissi su di me: «tu» sussurra, «tu che parli di calcio? Ma soprattutto… tu che hai visto i mondiali del 2006?» domanda esterrefatta, «ma che c’entra?» mi giustifico, «non sto parlando di calcio, uno, e due: certo che li ho visti i mondiali. Ho anche festeggiato e per poco non infilzo uno con la bandiera quando Grosso ha segnato il rigore» ammetto sapendo già quale sarà la sua reazione… e infatti, ride. Ride tanto, porta le mani alla bocca e si dondola come una scema. La solita esagerata. «Seguivo ancora il calcio da ragazzino… ma adesso non è questo il discorso, sono serio!» esclamo offeso, cercando di riportare ordine. Lei capisce e mi guarda seria ed interessata: ora ho di nuovo la sua attenzione. «Dicevo, vorrei sentirmi come lui. Come Cannavaro in quel preciso istante. C’hai mai pensato a come devono essersi sentiti gli Azzurri? Secondo me hanno avuto la certezza assoluta di essere riusciti in quello che dovevano fare. Hanno vinto il mondiale, porca puttana. Cannavaro ha sollevato la coppa. S’abbracciavano tutti. L’Italia intera festeggiava con loro. Ecco, per un solo istante vorrei sentirmi così». Lei mi ascolta attenta, io continuo. «E come Grosso. Porca vacca, ma l’hai visto l’autocontrollo di Grosso al rigore decisivo? Io sarei morto. E avrei sicuramente sbagliato». Lei sorride, io mi fermo a pensare. «Non lo so che c’ho. Sono solo contento di poterne parlare con te», «e io sono felice di poterti ascoltare, scemo» risponde lei con un sorriso bellissimo, «e tu potrai essere Cannavaro e Grosso messi assieme ogni volta che vorrai. Ne hai tutte le capacità e soprattutto la grinta. Hai la grinta, cazzo, ma non te ne rendi conto» conclude. La guardo: «ho la sindrome del bagnante» confesso. Mi guarda, ora è confusa, «la sindrome di che?», domanda. «La sindrome del bagnante» ripeto io convinto, poi mi accingo finalmente a spiegare: «ieri sono andato in piscina con gli amici, ricordi? Ecco, tolta l’ansia di mettermi a torso nudo davanti a tutti ma va beh, ‘sta fissa che ho la conosci. Ecco, tolta l’ansia, sai la prima cosa che ho fatto qual è stata?» lei scuote la testa curiosa, «ho guardato il bagnino. Cioè, ho pagato l’entrata della piscina e neanche mi son messo la crema solare che subito ho guardato il bagnino», «e perché?» chiede lei. Mi preparo al peggio: «perché c’ho la sindrome del bagnante, te l’ho detto. Avevo paura di non essere fisicamente alla sua altezza. ‘Sti cazzo di bagnini hanno i fisici da supereroi, e ogni volta che uno va al mare deve subire il confronto. La sindrome del bagnante: sentirsi inferiori a qualcuno in un contesto comune». Finisco di spiegare e resto a guardarla in attesa di una sua risata fragorosa ma lei resta stranamente in silenzio, gli occhi fissi su di me, poi apre leggermente la bocca e dice: «ha senso». SBEM. Proseguo. «Ecco, ho la sindrome del bagnante. In ogni contesto. Si può chiamare anche “sindrome di bassa autostima” se vogliamo, magari rende di più. Mi sento a disagio in mezzo alla gente, perché so che risulterò sempre l’anello debole, quello che non sa e non può risolvere le situazioni. Sarò sempre un comune bagnante, non un bagnino. Sarò il babbano di turno, non il mago che va ad Hogwarts. Sarò sempre il civile che guarda i supereroi salvare il mondo e magari rischia anche di essere schiacciato da un grattacielo che crolla». Finisco di parlare e mi accorgo di avere la bocca allappata quindi ordino un bicchiere d’acqua del rubinetto e pago i due caffè, mentre lei sta zitta a pensare, stavolta con lo sguardo fisso sul pavimento.
Acqua bevuta, conto pagato, lei ancora che guarda per terra, le faccio segno di uscire e mi segue. Appena metto piede fuori mi manca il respiro a causa del caldo che quasi vorrei mandare a fare in culo il lavoro, i ciclisti e tutto il resto e tornare di nuovo nel bar per restarci fino a sera con lei, che adesso mi guarda con quegli occhioni bellissimi e quella bocca che è solo da baciare. Respiro. Sento il suo respiro. Le carezzo i capelli con la mano e sto per baciarla ma lei comincia improvvisamente a parlare, come un fiume in piena: «siamo due Babbani bellissimi che se ne fottono delle scope volanti e vanno in alto anche senza. Due civili che si vogliono bene, che si amano e lottano giorno dopo giorno contro i super cattivi senza avere i super poteri. Siamo due bagnanti che non ci penserebbero due volte se dovessero vedere qualcuno in acqua in difficoltà e correrebbero in soccorso, anche senza saper nuotare», vorrei abbracciarla ma mi impongo di farla finire. Deve dirmi tutto quello che ha dentro, perché solo lei può svoltarmi la giornata. «E sì, tu ti incazzi sempre, ma perché ci tieni. Tieni alla gente, alle cose che fai, ci credi. Quindi oh, incazzati. Fai macello, corri per due, tre ore, prendi a cazzotti il muro, ma non tenerti tutta ‘sta roba dentro perché il mondo perderebbe qualcosa di prezioso». Sbuffo, «il mondo non ha bisogno di uno che si emoziona per quello che fa e che si mette a parlare da solo sul furgone quando sta incazzato. Il mondo ha bisogno di gente che sappia prendere la decisione giusta al momento giusto. Certe volte mi sento in colpa ad emozionarmi per quelle che essenzialmente sono stronzate rispetto ai dolori che in questo preciso stanno affrontando molte persone. Boh. T’ho detto, ho mancanza d’autocontrollo e la sindrome del bagnante e insieme sono terribili. Vedo tutto nero e quando sono arrabbiato faccio i macelli. Devo calmarmi. Ah, c’ho pure la sindrome dell’abbandono se proprio vogliamo dirla tutta. A te capita mai? L’ossessione di essere abbandonati… di essere lasciati soli… la paranoia fissa in testa di essere sostituiti con qualcuno?» le domando, ma lei non risponde, si avvicina e mi bacia. La guardo. Mi guarda. «E questo?» dico. «Questo è il premio per essere quello che sei. Prendilo anche come assicurazione nel caso ti abbandonassi… dovrai ridarmelo. Dovrai riconsegnarmi il bacio. Allora mi bacerai e mi innamorerò nuovamente di te. Perché tu sei così. Sei da amare, scemo». SBEM. «Adesso va’, torna a lavoro, che devi salvare il mondo, bagnante coraggioso» dice sogghignando e dandomi un colpetto sul petto. La guardo, sorrido, poi la stringo forte a me. «Allora è deciso: alieni, zombie, maghi oscuri, ciclisti e bagnini maledetti… niente potrà fermarci. E soprattutto io non t’abbandono, e tu non abbandoni me» dico. Lei scoppia a ridere, mi prende il volto tra le mani e mi guarda dentro, nell’anima, come se avesse la vista a Raggi X di Superman: «mai».

Andrea Abbafati

Ho rovesciato il caffè e ho capito tutto

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«Ci fermiamo un attimo?».
Pausa, silenzio, lei si volta e mi guarda: «certo» risponde e allora ok, ci fermiamo un attimo.
Solita corsetta settimanale in due nel bosco, solo che oggi non ci sto né con la testa, né con il fisico. Lei capisce, in realtà ha già capito da quando siamo partiti. «Era ora» butta lì. La guardo, «”era ora” che?». «Era ora che ti fermassi. Mica sono scema, ti vedo e ti sento: stai a pezzi. Che hai, piccolo rottame che non sei altro?» domanda sorridendo mentre io mi trattengo per non rosicare. «Niente» rispondo, «sono solo stanco. Ci sediamo un attimo?», lei non risponde, si sdraia a terra con le braccia sotto la testa e lo sguardo verso l’alto, io faccio lo stesso, sollevato.
«Hai raggiunto il limite, eh?» dice lei improvvisamente. La guardo, capisco, sospiro: «sì». Ammettere una roba del genere per me sarebbe stato impossibile fino a ieri, poi finalmente ho capito. Ripeto tutto, ma stavolta ad alta voce: «ammettere una roba del genere per me sarebbe stato impossibile fino a ieri, poi finalmente ho capito», lei distoglie lo sguardo dal cielo e mi guarda, «spiega» dice. «Stamattina mi sono fatto un caffè prima di attaccare a lavoro, ero talmente distratto che ad un certo punto ho dato una botta alla tazzina rovesciando tutto» lei sorride, io continuo «non puoi capire le imprecazioni, mie e di mia madre che s’è vista la tovaglia nuova diventare un Pocket Coffee». Pausa. Scoppiamo a ridere entrambi ed eccola finalmente… la leggerezza. Lei riprende fiato con difficoltà, poi finalmente fa la domanda importante: «sì, ma che hai capito?», io scelgo bene le parole per risultare il più delicato possibile: «che non possiamo controllare un cazzo di niente» lei sorride mordendosi le labbra, «t’è caduta la corona, Oxford» dice, poi scoppiamo di nuovo a ridere. Toh, eccola di nuovo la leggerezza. «Dai, quando ci vuole ci vuole» mi giustifico io ma lei subito alza le mani al cielo «ma non sto dicendo niente! Anzi ti prego, continua. Mi piace quando fai il filosofo» e sorride di nuovo guardandomi con quegli occhi che, Dio Santo, vorrei vederla guardarmi per sempre. «Non faccio il filosofo» continuo con difficoltà resistendo alla tentazione di perdermi nel suo sguardo, «faccio il realista. Non possiamo gestire un cazzo della nostra vita. Non possiamo scegliere un cazzo, tutto quello che scegliamo è perché ci viene data la possibilità di sceglierlo. Non vogliamo veramente quello che abbiamo, lo desideriamo solo perché ce lo ritroviamo davanti come unica scelta» e qui mi ferma con una smorfia: «quindi non mi vuoi davvero? Non mi hai scelto, brutto rottame che non sei altro?» domanda delusa ma io la zittisco immediatamente mettendole un dito sulle labbra: «a te ti sceglierei ogni volta tutte le volte in qualsiasi altra vita», lei sorride «non si dice “a te ti”», io sorrido «vedi? Non possiamo neanche scegliere come parlare» e scoppiamo a ridere di nuovo per qualche secondo, poi torno serio: «fino a ieri mi dannavo per ogni cosa. Poi stamattina, il caffè. Ho rovesciato il caffè e ho capito tutto. Devo lasciare andare le cose, le persone, godermi le giornate, staccare ‘sto cazzo di internet» e subito lei mi fa l’eco «“staccare ‘sto cazzo di internet”!» e io continuo «mettere la modalità offline quando riposo, mangiare e bere qualcosa con gli amici ogni tanto e ‘sticazzi della dieta» e lei mi fa nuovamente l’eco «“e ‘sticazzi della dieta”!» e io continuo ancora «smetterla di specchiarmi che tanto non mi piacerò mai, smetterla di preoccuparmi per gli altri, smetterla di chiedere sempre se va bene qualcosa o se sta bene qualcuno. Chiedermi se sto bene io» e di nuovo lei con l’eco «“chiedermi se sto bene io!”» e io che continuo imperterrito «e dire qualche “vaffanculo” ogni tanto, qualche “sticazzi”, staccare la televisione, scrivere tanto, leggere fumetti, libri, riposare quando ho turni pesanti, non pensare sempre e soltanto ad arrivare da qualche parte e ogni tanto pretendere, che porca troia mica devo essere sempre io quello che sta ai comodi degli altri», lei stavolta resta zitta, ha capito che sono serio… io guardo in alto, il cielo è limpido e c’è un sole pieno che ci illumina totalmente. Apro leggermente la bocca e parto: «’sticazzi» e spalanco le braccia facendo cerchi di terra e sollevando polvere su polvere, lei scoppia a ridere, «’sticazzi!» e si alza, «’STICAZZI!» urla a squarciagola, «a noi non ce ne frega niente per oggi, abbiamo chiuso!» e salta da tutte le parti, fa le capriole, imita una scimmia, poi si sdraia nuovamente accanto a me, sudatissima. «Sei fuori forma, cocca» stuzzico io, «’sticazzi!» urlacchia lei. Di nuovo la leggerezza, di nuovo scoppiamo a ridere. Mi siedo, nonostante il sentirmi leggero mi sento strano, non pienamente libero. Lei mi imita, sedendosi al mio fianco e poggiando la testa sulla mia spalla. «Ieri volevo mollare tutto. Ho avuto un attimo di tentazione… volevo mandare a fare in culo tutto e tutti. I progetti, la gente che non mi dava retta e quella che voleva tanto spiegarmi che problemi aveva. Mi sentivo stanco, arrivato, senza più limiti. Lavorare, lavorare, lavorare… per cosa? Dove devo arrivare? Che tanto più sembra che faccio passi avanti e più perdo energie a dare un senso a tutto. “Ho chiuso” mi son detto, “mi ritiro”». Pausa. Silenzio. Lei trattiene il fiato: «e poi?» domanda. Poi ho pensato a lei. «Poi ho pensato a te» dico e il suo sguardo si illumina, «a tutti quelli che ho al mio fianco e ai quali amo offrire la birra, regalare braccialetti, scroccare la cena. Ho pensato a tutto e ho capito: ho solo bisogno di una pausa, di uno “’sticazzi” e di un “vaffanculo”, semplice semplice, senza sentirmi male cercando di essere sempre forte, senza sentirmi arrivato, senza dovermi per forza di cose sentirmi indistruttibile» lei capisce, sorride, «stamattina a lavoro mi hanno dato un furgone senza porta USB, quindi ho dovuto sorbirmi le canzonette di merda della radio… e sai cosa? L’ho fatto. Anzi, per un’oretta buona ho anche guidato a stereo spento, senza musica. Ascoltavo i rumori che entravano dal finestrino aperto. Ascoltavo me stesso», «poi t’ho chiamato io» aggiunge lei, «poi mi hai chiamato tu» confermo io. Sorridiamo. «Sei leggero cocco, lo sento» afferma lei, «hai semplicemente bisogno di sentirti così più spesso». Rifletto, annuisco, mi alzo. «Riprendiamo a correre?» suggerisco ma lei mi si para davanti, guardandomi dritto negli occhi: «oh» dice. «Oh» dico. Sorride: «riprenditi, affronta le cose con leggerezza». La guardo: «Leggerezza? Pesantezza casomai», «pesantezza?» chiede guardandomi, «sì, pesantezza, come una roccia». Mi guarda. «Come una roccia?» domanda, «sì, come una roccia» ripeto. Lei sorride alzando le spalle, «come una roccia», io insisto, sempre più convinto: «come una roccia, porca puttana». Lei annuisce, sorride uno dei suoi sorrisi enormi, poi: «oh sì… come una roccia, porca puttana!».
Mi bacia.

Del caffè

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Del caffè, dell’effetto che non fa sulla mia mente. Dell’odore della notte e della mattina presto, col sole che fa la prova tecnica per l’esibizione del giorno. Dei pensieri, dei racconti, della nausea post corsa dopo un’intera settimana passata a rincorrere. Di te che appari e scompari, di me che odio i giochi di magia. Delle sigarette, della puzza di fumo e dell’improvvisa voglia di sperimentare per vedere una volta tanto qualcosa uscire definitivamente dal tuo corpo e sparire nell’aria. Dei sentimenti grandi, immensi, meravigliosamente senza senso e della paura di perderli per sempre.
Di quello che succede del mondo. Delle serie tv sui supereroi. Dei fumetti che tra poco spezzeranno le ante della tua libreria. Delle avventure e delle canzoni tristi che partono mentre guardi l’orizzonte.
Degli addii.
Dei turni di lavoro, dei giorni di riposo con sveglia alle nove e alzata a mezzogiorno.
Della voglia di cambiare. Delle prove continue tutte le sere. Dei copioni imparati a memoria. Degli applausi, delle risate, dei complimenti, delle repliche, della voglia di fare qualcosa. Delle canzoni sussurrate sopra la musica per non perdere la voce prima di uno spettacolo. Dei saluti, delle litigate, della nostalgia degli abbracci. Di quando stavamo insieme. Di quando eravamo una squadra, tipo i Power Rangers, solo che non facevamo le mosse strane.
Dei ‘ti amo’, ‘ho paura’, ‘vaffanculo’. Della noia che ti porta a scrivere. Della stanchezza che ti porta a farti un caffè e a berlo amaro, perché “lo zucchero ingrassa”. Delle paranoie. Delle battaglie. Delle passeggiate solitarie ad attaccare locandine. Dei soldi spesi in cazzate.
Di te che te ne vai. Di te che torni. Delle nostre battaglie insieme. Dei sogni. Dei desideri. Di stasera che vado a cena con i nonni. Di me. Delle mie battaglie. Di noi. Delle nostre battaglie. Del mondo. Delle sue guerre.
Di quanto sei bella. Di quello che siamo. Di quando ti parlo e di quando mi guardi. Di quanto mi parli. Di quanto è bella la notte insieme. Di me che ti dico di non aver paura di nulla, che tanto ci sto io. Di te che mi poggi la testa sul petto alla mattina presto. Del mio cuore che batte. Dei nostri cuori che battono.
Che tanto sarà l’affetto a farci a pezzi. Sarà ‘sto “tump tump” ad ammazzarci.

Andrea Abbafati