RacCorto n. 5 – Piccole regole giuste

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Guarda il tramonto.
Osserva l’alba.
Non paragonarli.
Studia le persone. I loro errori. Le loro vittorie.
Non paragonarti.
Ascolta il mondo e benedici la tua libertà. Tu che puoi.
Stancati.
Riposati.
Guarda il sole per un po’, poi sposta lo sguardo e osserva quanta bellezza c’è quando spariscono le macchie nere.
Fai pensieri positivi.

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Via di fuga

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Lasciami una via di fuga,
per quando mi stancherò.
Prestami un respiro,
per quando avrò bisogno.
Guardami negli occhi,
stringimi le mani,
parlami all’orecchio,
insegnami l’ovvio,
lascia che mi ci abitui,
dammi fiducia,
tanto tu resti.
Fai la conta con le dita contando chi rimane,
io fisso il tuo cielo separato dai miei dubbi.
Scaviamo una via di fuga,
per quando ci stancheremo.
Che sia d’inverno,
che sia d’estate,
“abbracciami che ho freddo”.
Mostrami una via di fuga per quando rimpiangerò,
ciò che sono stato,
ciò che ho fatto,
quello che ho ascoltato,
le mie stesse cicatrici.
Per dormire vicino al mare ci vuole coraggio,
lo stesso che serve per ricominciare,
ma dormirei anche senza fuoco in mezzo ai predatori,
se conoscessi la tua protezione.
Lasciami una via di fuga,
per quando avrò paura,
per quando sarò debole,
per quando non saprò che fare,
per quando sarò colpito,
ogni giorno.
Aiutami a fuggire.

Andrea Abbafati

 

 

Alba facendo

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Squilla.
Leggo sullo schermo il nome di un collega.
Rispondo.
«Ao»
«Ao, ‘ndo stai?»
«Ecco sto tornando, ho fatto poco fa l’ultimo cliente. Arrivo»
«Sbrighete che forse devi partire per il secondo giro o m’aiuti a prepararlo almeno»
«No problem, arrivo. Oh, avvisa gli altri che porto i caffè»
«Ammazza e che è successo? Tu che offri?»
«Ma se offro sempre, su. Dai, arrivo»
«Vabbè… sbrighete me riccomanno, coglione»
«Ecco mo’ faccio tardi apposta, deficiente».
Il collega sbotta a ridere. Chiudo la chiamata. La strada è vuota, proseguo tranquillo sul furgone, gli occhi stanchi che non si chiudono solo grazie ai vari caffè presi.
Squilla di nuovo.
Neanche leggo il nome sullo schermo.
«Oh, hai rotto il cazzo, t’ho detto che arrivo… aspetta no?».
Silenzio.
Troppo silenzio.
Mi viene un dubbio ma non faccio in tempo a guardare sul display che…
«Oh, ma che problemi hai?».
È lei.
«Oh, scusa… credevo fosse il collega di prima! Scusa scusa scusa» spiego esterrefatto.
«Grazie del buongiorno eh, non dovevi» dice lei, ma sento che è divertita.
«MA BUONGIORNO! Comunque scusa davvero… è che pensavo mi avesse richiamato per rompermi le palle come fa spesso» Leggi tutto “Alba facendo”

Di barche, di promesse, di capelli sciolti

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«Oh»
«Eh»
«Vedi che faccio ritardo»
«”Buon anno!”»
«Anche a te».
Sospira. Si sente la rassegnazione che attraversa la rete telefonica.
«Sei un idiota» dice. «Grazie» rispondo. «Ti sto aspettando da mezz’ora in piazza. Fa un freddo bestia. Dove sei?» chiede.
Domanda sbagliata. Domanda sbagliatissima.
«A casa».
Silenzio. «A casa? Che vuol dire che sei a casa?». Sospiro. «Sì. Sono a casa. Seduto in camera. In mutande». Di nuovo silenzio. «Sei a casa, seduto in camera, in mutande?» ripete domandando più a sé stessa che a me. «Sì» dico io. «Mea culpa» aggiungo.
Silenzio. Mamma mia quanti silenzi.
«Non dici niente?» chiedo. «Meglio per te che non dica niente, fidati». Sogghigno, lei mi sente. «Che ridi, cretino?». «Non sto ridendo… sto sogghignando. Comunque scusa, davvero. Dammi dieci minuti e arrivo». «Dieci minuti e arrivi?». «Sì, il tempo di fare una doccia e sono da te. Va beh, forse più di dieci minuti…». Silenzio.
«Ancora con questi silenzi… ho avuto un problema, ok? Ti chiedo scusa». «Che problema hai avuto? Roba grave?» chiede lei improvvisamente preoccupata. Penso. Roba grave? «Non lo so. Forse sì, forse no. Pensavo». «Pensavi». «Pensavo, sì».
Silenzio.
«Beh, anch’io pensavo» dice. «A cosa?» chiedo. «A quanti schiaffi ti prenderai prima della mezzanotte» taglia corto.
Brividi. Silenzio. Brividi di silenzio.
«Ci tengo a te» dico io. «Non mi compri con le smancerie questa volta. Buffone» dice lei.
Sorrido.
Prendo fiato.
Parto.
«Pensavo a quest’anno che è passato. A me. A te. A noi. Poi di nuovo a te. Pensavo a quanto bella sei, alle persone che ho perso, a quelle che ho incontrato. Pensavo a questa roba qua… e mentre ci pensavo mi sono seduto e sono rimasto così tipo per un’ora. Ti chiedi mai se facciamo abbastanza? Non voglio attaccare un pippone ma… davvero, facciamo abbastanza secondo te? La gente si accorge che esistiamo? Che facciamo cose? Che ci amiamo… che ci vogliamo bene? La gente capisce il senso delle nostre cose? Braccialetti… tatuaggi… sguardi… foto… sacrifici… chili in meno… chili in più… rancori… la gente capisce tutto questo o semplicemente chiude gli occhi e scappa? Se sì, se no… che senso ha tutta questa matassa di roba sensata o meno?».
Prendo fiato nuovamente ma lei mi interrompe prima di iniziare a parlare. «Fermo» dice. «Ho capito». Pausa. «Ho capito tutto».
Sorrido.
Prende fiato.
«Non me ne frega niente della gente. Quello che faccio lo faccio perché fa stare bene me e chi amo. Tatuaggi, braccialetti, collane, capelli sciolti, capelli legati, mezz’ora ad aspettare in piazza…» (pausa punitiva) «…tutto questo ha senso per me. Cosa deve capire la gente? Che mi vedo brutta? Che mi vedo bella? Che tengo a te? Che fa freddo e voglio abbracciare qualcuno? Cosa devo spiegare, alla gente? Chi salta dalla barca ha un motivo, una destinazione ed è un vincente per questo, anche se abbandona la nave. Chi resta, lo fa perché ha trovato casa, perché sta bene, perché ha trovato un motivo per non saltare giù. Ha trovato un motivo per rinunciare alla libertà di andarsene».
Tutto chiaro. Come sempre. Come ogni volta che parla lei.
«E adesso porca la vacca, vienimi a prendere che fa freddo, mannaggia a me e a quando sono puntuale!» sclera.
Sorrido. Scoppio a ridere. «E’ vero» dico, «ho freddo anch’io». «E ti credo! Sei in mutande, deficiente!». Scoppiamo a ridere insieme.
«Oh»
«Eh»
«Arrivo. Facciamo mezz’ora, ok?»
«Ok»
«Prepara gli schiaffi»
«Non c’è bisogno di ricordarmelo»
Rido.
«Arrivo»
«Ti aspetto»

Andrea Abbafati

SOS

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L’una di notte. Probabilmente sto facendo la cazzata più insensata della mia intera vita ma poco importa. La faccio. Voglio farla.
Sto per spegnere l’auto ma improvvisamente dallo stereo parte una canzone rap strana, mai ascoltata prima. Ne seguo attentamente il testo… riesce a coinvolgermi, mi ispira e subito vorrei tornare a casa a scrivere per sfogarmi un po’ ma penso che qui ci sei tu, quindi resto. Mentre aspetto che finisca la canzone ecco che incomincia a pioviccicare. Le gocce scorrono lentamente sui finestrini dell’auto come volessero dirmi qualcosa, esortarmi a tornarmene a casa o a scendere dalla macchina.

La canzone finisce.

Spengo la macchina.

Apro lo sportello.

Esco.

Non piove forte ma fa un freddo cane. Esce vapore ad ogni pensiero che faccio. Sono praticamente una vaporiera.
La casa è lì davanti a me ma è tutto spento, anche le luci della sua camera.
Vai, si comincia.
Come nei libri che piacciono alle ragazze. Come nei film smielati che odio.

Mi chino.

Prendo un sassolino.

Lo lancio contro la sua finestra.

Tic.

Niente.

Di nuovo.

Tic.

Niente, di nuovo.

Di nuovo, di nuovo.

Toc.

«Quanto sei carino».

Sobbalzo.
Mi volto.
Lei è dietro di me, appena uscita da un cespuglio, come nei cartoni animati che amavo da ragazzino.
Il mio orgoglio si frantuma e la vergogna comincia a salire che è un piacere. «Che ci fai qua fuori?» riesco a balbettare. Improvvisamente, il caldo. «Stavo venendo da te» risponde lei. Eh? «Eh? In che senso?» chiedo io. «Stavo venendo da te a tirarti sassi alla finestra. Ammetto però che li avrei scelti un po’ più grossi dei tuoi…» risponde, poi sbotta a ridere e mi salta addosso abbracciandomi. «Ferma» insisto, «veramente stavi venendo da me? E perché?». Lei si stacca e mi guarda con un sorrisetto beffardo. «Perché no?». La guardo, lei continua a ridere. Tutto questo è umiliante. «Volevo farti una sorpresa» butto lì, «e avevo bisogno di te». «Avevi?» chiede, «ho» rispondo. Mi abbraccia di nuovo poi avvicina le sue labbra al mio orecchio sinistro e «tutto questo è molto romantico, carino» e scoppia a ridere di nuovo. E’ tutta una risata oggi. «Comunque piove» le dico, mentre la vergogna pian piano cala di intensità, «se restiamo qui ti bagni dalla testa ai piedi». Silenzio. Improvvisamente si blocca e mi fissa sbalordita. Passa qualche secondo, poi… si siede. La guardo confuso. «Che fai?» chiedo, ma lei non risponde quindi mi siedo al suo fianco e le poggio una mano sulla gamba. «Beh?» domando. Finalmente mi guarda, con le gocce d’acqua che le cadono dai capelli: «sono molto delusa. Davvero». Silenzio. «E’ da quando ci conosciamo che ti rompo le palle sul fatto che si fanno le cose in due… e ora?». Continuo a guardarla intontito senza capirci nulla. Lei capisce che non capisco quindi sbuffa e «mi bagno dalla testa ai piedi?» chiede, «mi?». Capisco. «Ci» mi corregge, «ci bagniamo! Perché “mi”? Tu sei impermeabile? Uff!». Uff. «Quando sbuffi così sembri un personaggio dei cartoni animati» le dico e subito lei comincia a prendermi a cazzotti alternandoli a minacce varie tipo “adesso ti faccio vedere io” e “ti graffio gli sportelli della macchina se mi paragoni nuovamente ad un cartone animato”. Poi si calma. Restiamo per un po’ in silenzio ad ascoltare il rumore della pioggia che ci bagna mentre il vapore che esce dalle nostre bocche fa disegni astratti per aria per poi sparire nel nulla.
«Comunque era un complimento» le spiego, «somigliare ad un cartone animato dico, era un complimento. Nel senso, sei buffa quando sbuffi in quel modo». Non l’avessi mai fatto. Mi guarda. La guardo. «Hai il naso grosso» sbotta improvvisamente. Sorrido. «Non hai nemmeno i capelli» aggiunge. Continuo a sorridere. «E poi sei anche stupido» conclude. Scoppio a ridere. «Lo sai che non mi scalfisci minimamente, vero? Sei troppo innocente per ferirmi a parole. E sai anche che i capelli me li rado, stupida» le spiego e subito lei trattiene il respiro, si morde le labbra e… «hai ragione. Non so offenderti. Hai perfettamente ragione». Mi rilasso. Ha gettato la spugna. Finalmente possiamo stare tranquilli.
«Non riesci nemmeno a fare una sorpresa che subito vieni sgamato».
SBEM. Lampo a ciel sereno. «Sei una stronza» dico. «Lo so» risponde lei.
Silenzio. La guardo. Mi guarda. Scoppiamo a ridere. «Ho vinto io!» dice lei tutta contenta. Sì, hai vinto tu, bella mia. Vinci sempre tu.
«Ha smesso di piovere» mi fa notare e subito si accovaccia a me, «se domani avremo la bronchite sarà esclusivamente colpa tua» continua sorridendo. «Comunque, come mai questa sassaiola? A cosa devo il piacere?» mi domanda mentre mi stringe forte a sé. «Diciamo che era un SOS». «Un SOS? Addirittura?». «Sì. Un SOS bello potente» concludo. Sì, un SOS veramente bello potente. Lei mi stringe sempre più forte. «Spara allora» dice, poi resta in attesa pronta ad ascoltare. Respiro. Mi avvicino lentamente a lei, poi… «BANG!». Stavolta è lei a sobbalzare, «sei veramente un cretino! Stupido! Stai facendo di tutto per allungare il brodo e tenermi appesa alle tue labbra… sei più noioso della tua serie tv sugli zombie preferita che ormai fa puntate di cinquanta minuti basate su colpi di scena inesistenti!» e ricomincia a prendermi a cazzotti. Io rido. Lei ride. Ricomincia a piovere. «Sono venuto perché amo abbracciarti e in una situazione di pericolo o di indecisione penso immediatamente a questo. Al fatto che amo abbracciarti» dico mentre la pioggia cerca di coprire le mie parole, quindi alzo leggermente la voce fregandomene del fatto che ormai si son fatte le due. «Ho una domanda da farti» annuncio e subito lei mi concede la sua attenzione alzando il sopracciglio: «spara» dice, «NO! Non farlo! Dimmi… DIMMI!» si corregge subito e io faccio veramente fatica a trattenere la risata per quanto è bella, ma il momento è serio: «non hai mai la paura improvvisa di restare da sola? Non pensi mai che magari un giorno ti sveglierai e ci sarai solo tu? Senza me… senza le persone che ti hanno accompagnata fino ad oggi… tu. Solo tu». Silenzio. Riflette. «Sola tipo come in una di quelle storie apocalittiche che piacciono tanto a te?» chiede. «Sì, anche» rispondo io, «più o meno dai. Facciamo che ti svegli sola, ma con la gente attorno. Cioè io ci sono, anche i tuoi amici… ma l’affetto che ci contraddistingueva no. Sei sola. Scopri improvvisamente di aver lottato per creare qualcosa ed essere stata l’unica a crederci e a volerla portare avanti davvero». La sento che pensa per qualche secondo poi fa una smorfia disgustata: «brutto» mormora. «Brutto sì» concordo, poi la stringo sempre più forte. «Beh… partendo dal fatto che se credo in qualcosa la porto avanti comunque… capita di restare da soli. E’ capitato, sta capitando e capiterà. Ma una volta presa una strada si deve proseguire, quindi se proprio mi ritroverò da sola vorrà dire che lotterò per sopravvivere come ho sempre fatto» spiega. «Sta alla base di tutto, no? Fa sicuramente paura… ma fa parte dell’animo umano. Ad un certo punto secondo me bisogna diventare egoisti, pensare prima a sé stessi e andare avanti, altrimenti si muore da soli. E deve essere veramente brutto morire da soli». Rifletto su ciò che ha appena detto mentre prende fiato e continua: «non so cosa ti sia successo ma se vuoi puoi approfittare del fatto di non essere solo e di avere me al tuo fianco» dice mentre mi stringe con una forza inaudita, «so quanta passione metti in tutto quello che fai… sei tale e quale a me, per questo ci prendiamo così bene. Pensiamo che tutti la pensino come noi. Siamo convinti che tutti siano disposti a sacrifici immensi per portare avanti la causa e restiamo sempre a bocca aperta come dei fessi quando scopriamo a nostre spese che non è così». La ascolto con attenzione e mi ritrovo nella descrizione: un fesso a bocca aperta. Mi ha capito. Mi capisce da sempre. Lei c’è e prende nuovamente fiato come se dovesse immergersi dentro di me per scovare la radice del problema: «potrai venire tutte le notti alla stessa ora qui e lanciarmi massi contro il vetro ma io sarò saltata fuori dalla finestra prima del tuo arrivo ogni volta, perché ti capisco. Perché non sto mai ferma ad aspettare, proprio come te. Siamo simili. Mai immobili. Neanche adesso: seduti su un prato sotto la pioggia, eppure mai stati così in movimento come ora. Ecco perché ti capisco: siamo soldati nella stessa guerra. Ci puliamo le ferite insieme perché sappiamo che se non ci medichiamo tra di noi siamo belli che spacciati».

Penso. Lei mi guarda. Io penso e lei mi guarda.

«Dove t’ho trovata?» domando. Lei ride. «Se non la smetti di fare il fesso ti lancio un sasso in faccia». La delicatezza. «Allora? Soddisfatto della risposta?» chiede. «Assolutamente. Un SOS magnifico» rispondo, «grazie. Davvero».  Silenzio. Lei solitamente odia i miei grazie ma questa volta non sembra voler dire nulla. Restiamo a guardarci in silenzio forse per ore, magari per qualche minuto, poi lei si alza, io faccio altrettanto, ci guardiamo, ci abbracciamo e da così, abbracciati, lei improvvisamente mi sussurra all’orecchio, con la sicurezza di chi c’è: «di niente, soldato».

Andrea Abbafati

Autoritratto (storia di una virgola)

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Bip bip. Bip bip. Bip bip. Bip–
Spegni la sveglia impostata al cellulare. L’ottava. Oggi è giorno di riposo. Oggi ti riposi.
La mente allenata a svegliarsi automaticamente alle tre e trenta del mattino, gli occhi che esplorano la stanza bagnata dal poco sole coperto dalle nuvole e la gola secca che non emette suoni.
«Ehm, ehm» provi a buttar giù. Bene. Le corde vocali sembrano rispondere. Tutto si muove, tutto funziona. Vivo anche oggi, metti i piedi giù dal letto. E’ tardi. E’ sempre tardi, anche se non hai nulla da fare per una volta. Per un giorno.
Nella stanza il disordine. Il portatile scarico, la batteria da cambiare, il carica batterie ancora attaccato alla presa elettrica, fogli sparsi sulla scrivania e fumetti ossessivamente posti in ordine numerico che appesantiscono le mensole di legno vecchie e coperte da pagine di mensili doppioni.
Ti rechi in bagno, apri l’acqua, ti sciacqui la faccia e ti guardi allo specchio. Barba incolta, capelli rasati, ciglia troppo grandi e un naso che sembra rotto ma che piace molto a molte. Le “mani da pianista”, come le ha sempre chiamate tua nonna ti carezzano il volto. Tale e quale ad ora. Sei tale e quale ad ora. Identico, spiccicato a come sei ora. Va tutto bene. In sala i tuoi si scambiano qualche battuta, ridono. Tuo fratello ti saluta con un cenno della testa. I nonni, di sotto, sono svegli dalle sei di mattina. Il cane ha fame e scodinzola davanti la porta. Fuori fa freddo, è novembre, manca poco a Natale. Tu, ancora in mutande, continui a guardarti allo specchio. Guardi il tuo corpo che cambia, che finalmente ti piace e che hai paura di veder rovinato, di nuovo. E pensi al passato. A ciò che è stato. A tutto quello che ti ha permesso di essere quello che sei ora.
Ti vesti. Fai colazione. Esci.
Fa freddo. Dalla bocca esce vapore misto a pensieri. Il tempo di un caffè e subito riesci a gestire la paranoie: ormai sei allenato. Hai parcheggiato l’auto lontano, così puoi passare del tempo con te stesso, camminando piano. E quanti saluti, quante strette di mano. Quante persone che a causa del tuo nome e cognome ti confondono per un altro.
La piazza è vuota, di questi tempi meglio stare a casa a passare il tempo libero. Qualche locandina affissa ti ricorda che è tempo di spettacolo. Il teatro forte, speranzoso, ricco di sogni e idee che non muore mai.
Ieri sera hai finito un fumetto nuovo e visto una puntata della tua serie tv preferita. Alimenti spesso il tuo cervello con storie scritte e raccontate da altri… il paradosso di chi scrive: per riposare e cercare l’ispirazione ci si nutre dei racconti urlati a squarciagola nel freddo vento invernale.
«Ciao bello, caffè al vetro o in tazza?» chiede la barista che non rispecchia assolutamente la ragazza dei tuoi sogni, quindi neanche ci provi. «Tazza, grazie» rispondi tu, poi «potrei avere il dolcificante al posto dello zucchero?». La linea è importante. Un caffè veloce accompagnato da qualche chiacchiera interessante spiccata da un chiacchiericcio noioso. Iniziano così le storie migliori. Finito il caffè paghi ed esci dal bar. La piazza continua ad essere vuota. Cammini. Decidi di attraversare sulle strisce pedonali e subito un signore che sembra aver fretta si ferma con l’auto e ti fa passare. Ringrazi. Lui sorride, poi riparte altrettanto di fretta. Passa una signora con le buste della spesa, si incrociano i vostri sguardi. Stavolta sei tu a sorridere, lei ricambia e abbassa la testa. Si vergogna? E’ davvero così intimo un saluto, di questi tempi? Più intimo della nudità?
Improvvisamente, un peso. Scansi leggermente la felpa che hai addosso e ricordi di avere al collo due collane. Pesano. Il peso dei sogni che si sente di più quando hai la testa vuota, rilassata, quando sei distratto. Il peso che ti ricorda che non si è mai da soli, una volta dato il via a qualcosa.
Acceleri il passo e ti ritrovi da solo, in mezzo ad una stradina.

Silenzio.

Respiri. Non hai paura.

Poi, da un vicoletto lì vicino, spunta una ragazzetta che dimostra quattordici, quindici anni. Canticchia tra sé. Si ferma un attimo, ti guarda, smette di cantare. I suoi enormi occhi marroni ti scrutano silenziosamente. Ha i capelli arruffatissimi e tra un capello e l’altro ti sembra di vedere un sogno incastrato che ancora non è riuscito a spiccare il volo. Avrà il suo tempo. Prima o poi riuscirà a districarsi da quei lunghi capelli e volerà lontano, ne sei sicuro e vorresti dirglielo ma lei, ancora concentrata su di te, ti precede disegnando sul suo viso con il pennarello dell’innocenza un sorriso sgargiante, pieno di luce. E’ già agosto?
E via. La piccola sognatrice continua il suo canto immersa tra i vicoletti di questo paese silenzioso. La guardi uscire dal tuo campo visivo canticchiando e saltellando, mentre tutt’attorno nulla è più grigio. Tutto è salvato.
Torni a casa. O meglio, prima torni alla macchina, poi torni a casa. E’ tardi. Vai in bagno e ti guardi allo specchio: le pupille dilatate come se avessi assunto qualche droga, le mani raggrinzite a causa del freddo, il cuore ben coperto e al caldo così come lo stomaco, in subbuglio. Sorridi. «Che poi, ti affanni tanto a cercare un motivo, un perché, quando basta stringere forti i pugni» dice il tizio allo specchio. Ha più capelli, qualche anno meno di te, meno esperienza, il naso che sembra rotto. «Ti fai trasportare troppo. Respira. Sii calmo. Non puoi salvare il mondo» continua. «Non posso salvare il mondo?» sussurri, sorpreso. «E allora che ci sto a fare?». «Fai parte della storia» dice lui. «Sei la virgola che se messa al posto giusto può dar senso alla frase». Sorride, «e ti prego… fai bella figura. La grammatica è importante» e se ne va. Lo specchio resta vuoto. Capisci. Anche il vuoto ha una storia. Anche le assenze portano avanti il racconto, per quanto male possano fare.
Le collane improvvisamente sembrano bruciare: una rappresenta un tornado, l’altra la libertà. Le stringi talmente forte che quasi le mani iniziano a sanguinare. Via dallo specchio, il riflesso non serve. Apri un’anta dell’armadio e ne tiri fuori un mantello rosso sgargiante che indossi immediatamente. Salvare il mondo magari no, ma nessuno ha detto che tu non possa essere un supereroe, giusto?
Nessuna maschera, trasparente come pochi, pugni ben stretti e gambe pronte a scattare. T’aspetta il mondo. Una storia da raccontare. Un falò e tutti attorno, per proteggersi l’un l’altro.
Il mondo no, non riuscirai a salvarlo… ma sorridi ugualmente, deciso, pronto.
Con coraggio, paura, dedizione e timore, farai sicuramente il possibile per far finire la storia nel miglior modo possibile, sfruttando tutto il potere che ti è concesso.

Finalmente un motivo. Finalmente un perché.

Riuscirai in tutto, virgola.

Andrea Abbafati

Di zombie, di infetti, di apocalissi varie

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«Ieri ho visto un film horror sugli zombie».
D’un tratto la luce. C’era troppo silenzio. Stare seduti su di un muretto e starsene zitti zitti dopo un po’ annoia.
La guardo. «Che film era?» chiedo. «Non chiedermelo, non ne ho idea. Ma erano zombie strani. Cioè, correvano». Sorrido e, dall’alto della mia conoscenza del tema, spiego: «allora non erano zombie. Erano infetti». «Infetti?». «Infetti, sì». Lei mi guarda confusa. «Che cambia?» chiede. Sbuffo. «Mi ritengo offeso. Non conoscere una differenza così importante…», «senti scemo lo so che ami gli zombie, ma io sono ignorante in materia quindi o me lo dici o non me ne frega più niente!». La amo quando fa così. E anche quando non fa così. «Va bene, stop, calma. La differenza è semplice. Gli infetti corrono, hanno comportamenti quasi umani. Sono decisamente intelligenti. Sono forti. Gli zombie invece… beh, sono stupidi. Barcollano. Sono molto pericolosi in gruppo, nelle cosiddette orde. Entrambi però sfruttano l’udito per cercare le proprie “prede” ed entrambi trasmettono l’infezione attraverso il morso e in alcuni casi anche tramite sangue e saliva infetti». Mi guarda, sorride disgustata. «La tua passione per questa roba non l’ho mai realmente capita». Sorride di nuovo. «Cosa ti piace di tutto questo? Dell’apocalisse zombie… della sopravvivenza… cosa c’è di bello in questo genere di cose?». Mi schiarisco la voce. «Il cambiamento». Non capisce ma non vuole ammetterlo. Aspetta che mi spieghi meglio. «Nei film, nelle serie tv, nei fumetti, nei libri che parlano di questa roba… i personaggi cambiano. Finiscono con il dimostrare a tutti e soprattutto a sé stessi chi sono realmente. Coraggio, paura, nostalgia, amore, odio. Esce tutto fuori e gli zombie, gli infetti, finiscono con il diventare uno sfondo, un’allegra festicciola da evitare. Questo mi piace. I morti viventi finiscono con il far allontanare le persone cattive e unire chi vuole sopravvivere. Da soli si muore. In gruppo si prova ad andare avanti. Si formano delle comunità e finalmente si comincia a capire cosa significhi veramente vivere insieme quando si ha un nemico comune e delle regole importanti da rispettare». Silenzio. Pensa. «Mh» sussurra. «Ho capito». Meno male. «Mi piace quando la gente si aiuta» continuo, «e in situazioni terribili, dove la speranza sembra esser morta, si crea sempre un certo feeling, una sorta di collaborazione che finisce sempre per portare frutti. Dovremmo solamente provare a collaborare tutti quanti insieme prima che qualche zombie/infetto cominci a scorrazzare per le strade. Tutto qua». Sorride. «Quindi impazzisci per le storie zombie» dice. «Assolutamente» esclamo io.
Porca vacca, mi sa che s’aspettava una cosa tipo “assolutamente. Ma mi piaci più tu ovviamente, bambola!”.
Mh.
«E per te. Impazzisco soprattutto per te» aggiungo, ma mi parte l’esagerazione poetica e via, parto convintissimo: «tipo che io e te siamo sopravvissuti ad un’apocalisse zombie devastante, gli unici rimasti vivi in tutto il mondo». Esagera, cacchio, esagera! «E tu mi hai salvato. Altrimenti sarei diventato uno zombie pure io e mica mi sarebbe piaciuta ‘sta cosa».
Mi guarda, i suoi occhi mi scrutano attentamente. Sembra convinta.
«Forte!» esclama.
SBEM.
Conquistata.

Andrea Abbafati

Occhi sporchi

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«Tu hai gli occhi sporchi» dice.
«Eh?». “Eh?” è l’unica cosa che mi viene in mente per rispondere ad un’affermazione del genere.
«Hai gli occhi sporchi», ripetere tecnicamente non varrebbe, ma lei può. «P-può da-può darsi» balbetto, poi continuo ad osservarla. «Sai» dice lei «se hai gli occhi sporchi ti sembra tutto sporco». Silenzio. «Andrebbero puliti quegli occhietti». “Occhietti”: uno dei termini che odio di più al mondo, mi immagino sempre un volto enorme con due occhi minuscoli, quasi inesistenti… l’orrore… ma la sua voce ha l’incredibile potere di trasformare le cose schifose in quasi belle e allora sì, ho “gli occhietti”. «Beh… non so che dirti» butto là e lei subito, quasi avesse la risposta pronta «non sai che dire perché non vedi bene. Se hai gli occhi sporchi non vedi tutto nella sua forma, automaticamente non sai commentare, descrivere, parlare, vivere». Si alza. «Bisogna pulire quegli occhietti» dice, poi mi si avvicina, io ancora seduto la osservo. «E come?» chiedo, quasi temendo la risposta. «Chiudendoli un po’» dice lei. «Facendoli riposare. Li usi troppo. Stai troppo attento ai dettagli, li fai girare spesso. Vortici di curiosità. Ci pulisci gli angoli, con quegli occhi. Che pretendi poi? Che non siano sporchi?». Continuo a guardarla. Lei in piedi, bella, io seduto sul muretto, capelli rasati che tutti scambiano per calvizie e una bella miopia che mi fa vedere le cose in modo distorto. “Hai gli occhi sporchi” ed è subito chiarezza. Tutto è chiaro. Tutto si vede meglio. «Hai ragione. Di nuovo» dico, lei sorride presuntuosa. «E che t’aspettavi?» fa, poi si inginocchia sul muretto e mi abbraccia. Io la stringo più forte che posso e me ne esco con una frase che raramente dico: «mi aiuti a pulirli, ‘sti occhi?». Mi guarda. Ha lo sguardo pulito. Lo sguardo che pulisce. Le orecchie che ascoltano. Le labbra sincere, pronte a salvare. I capelli lunghi, che riscaldano e profumano di buono. Lentamente, le sue labbra si aprono ed esce la salvezza: «certo, piccolé».

Andrea Abbafati