RacCorto n. 6 – Precedenze

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«Mi sa che mi è tornato il blocco dello scrittore»
«Sì?»
«Sì»
«Da che lo capisci?»
«Mi metto a scrivere ma non scrivo. Mi fisso sulle parole senza riuscire a scegliere quella giusta»
«Magari sei solo stanco»
«È blocco dello scrittore»
«E va bene, è blocco dello scrittore. E quindi?»
«Quindi che?»
«Quindi che fai? Aspetti che passa o ti decidi a scrivere e basta?»
«Ma se ti ho detto che…»
«Sì, ho capito. Hai il blocco dello scrittore»
«Eh»
«Però nemmeno puoi arrenderti ogni volta che non hai nulla da scrivere. Che ne so. Cerca ispirazione»
«Ma l’ispirazione non è una roba che trovi così, per strada, a caso»
«Secondo me l’ispirazione aspetta solo di essere scovata. O costruita»
«Se, ciao»
«Pensaci»
«A che?»
«All’ispirazione. Pensaci. Per esempio: ultimamente, una cosa che fai spesso?».
Penso. Mi vengono in mente tremila battute sconce che decido di non dire. La guardo. I suoi occhi mi fissano nell’anima. Porca troia. È lei la mia ispirazione.
«Una cosa che faccio spesso» ripeto. «Sì» dice lei, «quando sei fuori».
«Quando sono fuori?». «Sì. Quando sei in giro. A lavoro. In macchina. Ovunque».
«Ah, be’… ultimamente quando sono in giro regalo precedenze come se non ci fosse un domani»
«Precedenze?»
«Sì. Stamattina per poco non vengo tamponato perché mi sono fermato di botto ad una rotatoria per far passare un vecchietto»
«Mh. Non intendevo “una cosa che fai spesso per farti uccidere”, ma almeno è un inizio. E perché regali precedenze come se non ci fosse un domani?»
«Mi fa stare bene. E anche lampeggiare per ringraziare quando poi per ringraziarmi tirano fuori la mano dal finestrino»
«Cioè… ringrazi per un ringraziamento?»
«Sì. Tecnicamente sì»
«E quindi lampeggi»
«E quindi lampeggio. Quando invece la precedenza la regalano a me metto le quattro frecce»
«Le quattro frecce?»
«Sì. Si usa spesso all’estero ma qua in Italia ovviamente arriviamo sempre tardi, come i treni»
«E come funziona?»
«Funziona che attivo le quattro frecce per qualche secondo per ringraziare e quello dietro mi lampeggia per farmi capire che ha capito. È tipo un “prego! Non c’è di che!”»
«È strana ‘sta cosa»
«Già».
Mi guarda. La guardo. «Che c’è?» chiedo.
Ride.
«Niente, niente. Pensavo a te che ti incazzi perché quello dietro ti suona col clacson mentre ti fermi di botto in mezzo alla rotonda»
«Divertente».
Scoppia a ridere.
«Troppo!».
Mi sdraio stizzito sul pavimento del terrazzo.
«Entriamo?» mi chiede. «Fa freddo. Siamo a febbraio e noi siamo fuori come se fosse agosto»
«Tu vai, io ti raggiungo tra poco».
Si stende al mio fianco.
«Se tu resti, io resto».
Porca troia, è proprio la mia ispirazione. Quella preferita di sicuro.
«Offro i caffè» dico improvvisamente. Sento che si volta verso di me, senza guardarla.
«Offri i caffè?»
«Se»
«A chi?»
«Dipende»
«Da cosa?»
«Ma perché?»
«Perché mi interessa»
«Non so da cosa dipenda. Lo faccio e basta»
«E so anche il perché»
«Perché mi fa stare bene»
«Ah! Lo sapevo!».
Questa volta sono io a voltarmi verso di lei. I suoi capelli lunghi le cadono sul volto, coprendole l’occhio destro. Glieli scosto con delicatezza. Sorride ed apre leggermente la bocca per dire qualcosa.
«Basta che non finisci per rimetterci» dice.
«Rimetterci?»
«Be’, sì. Se cominci ad offrire caffè a tutti…»
«Non offro caffè a tutti. Solo a chi penso li meriti»
«Sì, sì, per carità, ma…»
«Non ci si rimette mai quando si fa qualcosa che ti fa e fa stare bene».
Boom. Stesa. Mi guarda con il sorriso ancora stampato sul volto e la bocca ancora aperta. Quel sorriso un po’ ingenuo e forte che le scopre i denti bianchissimi.
«Ma sei proprio un bravo ragazzo allora!»
«Non sei divertente»
«Non voglio essere divertente. Sono sincera e basta».
Mi si avvicina leggermente. «Un premio per te» dice, poi mi bacia.
Le sue labbra ed il suo sapore. I brividi che mi passa. I capelli che si insinuano tra le nostre labbra.
Mi stacco un po’ troppo violentemente.
«Che c’è?»
«Ho l’ispirazione!»
«Ti è arrivata?»
«Proprio adesso!»
«Forte! Vedi che funziona cercarla?»
«L’ho cercata?»
«L’abbiamo cercata, sì»
«Nah. Non credo. L’hai sempre avuta tu tra le labbra. Dovevi solo darmela».
Di nuovo un sorriso, e la bocca socchiusa.
Mi alzo.
«Entriamo?»
«Certo!».
Si alza. Mi lancia velocemente un bacio a stampo, poi mi guarda facendomi segno di entrare. Mi scosto per farla passare.
Lei capisce e scoppia a ridere mentre le indico la porta.
«Prego, prima tu!».

Andrea Abbafati

RacCorto n. 5 – Piccole regole giuste

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Guarda il tramonto.
Osserva l’alba.
Non paragonarli.
Studia le persone. I loro errori. Le loro vittorie.
Non paragonarti.
Ascolta il mondo e benedici la tua libertà. Tu che puoi.
Stancati.
Riposati.
Guarda il sole per un po’, poi sposta lo sguardo e osserva quanta bellezza c’è quando spariscono le macchie nere.
Fai pensieri positivi.

Leggi tutto “RacCorto n. 5 – Piccole regole giuste”

RacCorto n. 4 – C’ho quasi trent’anni

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«Oh»
«Oi»
«Eh»
«Che dici?»
«Ti mando una cosa. Dimmi che ne pensi»
«Vai»

Invio.

«Ok, dovrebbe esserti arrivata»
«Una foto?»
«Sì»
«Sei te»
«Lo so»
«Vuoi che ti dica che sei bello?»
«Guardala attentamente»
«Cos’ha di strano?»
«Perché deve avere qualcosa di strano?»
«Tanta suspense per niente… è una tua foto normalissima»
«Guardala bene, ti dico!»
«Sei te. Cappuccio, cappello e mascherina. Siamo in piena pandemia. E allora?»
«Guarda bene gli occhi»
«C’hai le caccole?»
«Dai, su!»
«Oh, sono i tuoi occhi. La tua solita smorfia buffa, ma coperta dalla mascherina»
«No, questa è una smorfia diversa»
«Cioè?»
«È la smorfia di uno che ha appena scoperto di avere quasi trent’anni». Leggi tutto “RacCorto n. 4 – C’ho quasi trent’anni”

A lavoro tutto bene

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«Sai cosa mi manca veramente tanto?»
«Mh»
«Guardare il cielo di notte in mezzo alla campagna, prendere una birra in qualche pub squallido e puzzolente, mangiare dal cinese, poi fare lo spuntino di mezzanotte con la pizza appena sfornata e tornare a casa ubriaca senza avere l’ansia di pesarmi sulla bilancia la mattina dopo»
«Mh… forte»
«Già… a te invece cosa manca?».
Silenzio.
«Oi… ci sei ancora?»
«Eh? Ah sì, certo. Eccomi»
«Pensavo fosse caduta la linea»
«No, no… ci sono»
«Ci sei, ma non ci sei»
«Eh?»
«Se vuoi attacco e ci sentiamo dopo, non è un problema ciccio»
«Ma falla finita… ti pare? Ti ascolto»
«Eh, ma io ho finito di parlare da qualche secondo ormai, ciccio»
«Ah… scusa, ero soprappensiero»
«Me ne sono accorta, ciccio»
«Stai in fissa oggi con “ciccio”, eh?»
«Sì, ciccio. Scusa, C – I – C – C – I – O»
«Cretina».
Ride.
«Beh, insomma?» Leggi tutto “A lavoro tutto bene”

Sport drink

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«Oi?»
«Oi»
«Finalmente. Ti ho fatto tre chiamate, pensavo fosse successo qualcosa. Sei sparito. Tutto ok?»
«Sì… sto un attimo incasinato in realtà… prima non potevo rispondere, scusa»
«Ti richiamo dopo? Tutto bene? Che è successo?»
«No, no tranquilla, ne sono uscito. Nulla di grave, dovrei aver risolto»
«Ne sei uscito da cosa? Mi stai facendo preoccupare»
«Senti, io te lo dico ma tu non ridere, ok?»
«Ma certo… spara…»
«BANG!»
«Oh, hai rotto i coglioni con ‘sta battuta tutte le volte! Io sono preoccupata e tu giochi?»
«Dai, scusa! Ok, vado… allora vado»
«Eh, vai…»
«Mi sono perso».
Silenzio.
Tanto silenzio. Sento solo il rumore del furgone sul quale sto posando le chiappe ma dal vivavoce del cellulare niente.
«Oh? Sei caduta?»
«Che significa che ti sei perso?»
«Cioè, non mi sono perso… nel senso… mi sono distratto, ecco»
«Ti sei distratto»
«Sì, mi sono distratto»
«Stai facendo il giro di consegna di Roma, giusto?»
«Sì, perché?»
«Lo fai da quattro anni ormai, no?»
«Quasi cinque in realtà, ma perché?»
«E ti sei perso?»
«No, ferma… cioè… non mi sono perso, mi sono distratto»
«Ti sei distratto»
«Oh Gesù… ho sbagliato strada, ok?»
«Hai sbagliato strada»
«Mi stai sul cazzo quando fai il pappagallo»
«Ma brutto fesso che non sei altro, mi ci fai capire qualcosa? Che significa che hai sbagliato strada?»
«Oh senti, non se ne può più… ti dico tutto e via»
«Hallelujah»
«Ho preso il Raccordo al contrario».
Silenzio lunghissimo.

 

Lunghissimo.

 

Lunghissimissimo.

 

«Sei caduta di nuovo?»
«Cioè fammi capire… hai preso il G.R.A. contromano?»
«NO! Ma che sei scema? Ti pare?»
«E allora che intendi con “al contrario”, scusa?»
«Intendo che l’ho preso direzione Firenze invece che direzione Napoli. Mi sono fatto cinquanta minuti in più ma sono quasi arrivato. Da ritiro patente proprio. Mi è pure impazzito il navigatore e non sapevo che cazzo fare. Sono andato tipo in crisi e quando sono per strada e vado in crisi non riesco a trovare nemmeno la via di casa mia grazie al mio meraviglioso senso dell’orientamento. I colleghi sicuro mi sfotteranno a vita».
Silenzio.
Ho come l’impressione che non saranno soltanto i colleghi a sfottermi a vita.
«Oh? Beh? Non dici niente?»
Ride. Scoppia a ridere dall’altra parte del telefono.
«Bene. Grazie. È sempre bello sentirsi capiti»
«Oddio scusa… scusa, scusa, SCUSA!! È che… boh… SCUSA!». E ride. Di nuovo.
«No ma lo capisco, figurati. Ora scusa ma metto giù che già ho l’orgoglio ferito, ci manchi solo tu a prendermi per il culo»
«No, fermo! Non ti sto prendendo per il culo, scemo! È solo che è una situazione buffa… che ti frega dei colleghi? Non è successo nulla di grave, hai soltanto sbagliato strada… pensi che a loro non capita mai?»
«Boh. Di sicuro sono bravi a non farlo notare»
«Che è decisamente diverso dal “non sbagliare mai”. Non trovi?»
Sorrido.
«Già»
«Comunque… come mai eri così distratto? Cosa gira in quella testaccia piena di cose? A che pensavi, fesso?»
«A te».
Silenzio. Questo sconosciuto amico.
«Ah. Sono fonte di distrazione quindi. Bene»
«Dai, scema… hai capito che intendo»
«Più o meno… quindi mi pensavi?»
«C’è un momento in cui non ti penso, secondo te?».
La sento che sorride.
«Mi pensi troppo evidentemente, scemo. Facciamo che quando vedi che pensandomi ti perdi nelle tue cose e nei tuoi pensieri mi chiami e ti rimetto sulla retta via, ok? Che dici, può andare?»
«Sì, credo possa funzionare. Bella idea!»
Ridiamo.
«Senti, piuttosto… come è andata la partita di basket, ieri sera? Poi non ci siamo più sentiti che sono crollata sul letto e non ho nemmeno messo la sveglia»
«Mh. Bene, dai»
«Ecco fatto. “Bene, dai”?»
«Sì, cioè… è andata bene. Ho giocato uno schifo ma stavo fisicamente e psicologicamente a pezzi quindi boh, forse è per quello»
«Posso venire a vederti giocare qualche volta?».
SBAM. Silenzio.
Stavolta è colpa mia.
«Oh? Sei caduto?»
«No, no… sono qua»
«Beh? Se non vuoi che vengo non è un problema eh!»
«No, ma scherzi? Cioè… ammetto che è una cosa che non ho mai fatto»
«Non ti sei mai portato una ragazza che ti piace alla partita di basket? Serio?»
«Non c’è mai stata una ragazza che mi piacesse come mi piaci tu interessata a venire a vedermi giocare a basket, è diverso»
«Ah! Beh… tadannnn! L’hai appena trovata!».
Scoppiamo a ridere nello stesso istante. Piccolo silenzio.
«Allora? Andata?»
«Certo. Assolutamente. Andata!»
«Senti ma… non è che ieri hai giocato uno schifo perché mi pensavi, no?».
E ride. Di nuovo. Ride che è una bellezza. Ride una risata senza pensieri. Ride una risata pulita, pura, bella.
«Chissà. Potrebbe essere. Ammetto che un po’ t’ho pensata tra un terzo tempo e l’altro»
«Mi ti immagino troppo a giocare a basket, tutto sudato che imprechi perché pensi di poter giocare meglio di quanto stai facendo».
Sorrido.
«Sì, più o meno sono così»
«Dovresti accettare il fatto di non essere perfetto ogni tanto. Dovresti sorridere dei tuoi errori ma soprattutto dei tuoi limiti. Dovresti essere fiero di ciò che sei e di ciò che stai facendo»
«Dici?»
«Dico, bello mio. Sei merce rara di questi tempi».
Silenzio. Penso.
«Già. Se lo dici tu… mi fido»
«E certo che ti fidi… vorrei vedere!»
«Oi, vedi che io sono arrivato… confermato per questa sera allora? Ci vediamo?»
«Certo che sì bello mio. Ci vediamo a ora di cena sul corso, facciamo una lunga passeggiata come al solito finché non sveniamo e poi ci mangiamo una cosa, che dici?»
«Dico che è perfetto, scema»
«Alla grande allora, scemo! E mi raccomando non perderti durante il tragitto!»
«Vaffanculo!».
Ride. Ride tantissimo.
«Come vuole, sir! Dai, gioco! Ci vediamo stasera… e fammi sapere quando fate la prossima partitella che vengo a fare il tifo e a tirarti la Gatorade in faccia quando avrai sete!». E mette giù, tra una risata e l’altra.

Avrei voluto dirtelo, ma pensavo fosse fuori contesto. Non ho bisogno di bevande colorate o di robe varie per aumentare la prestazione. Mi basta sapere che da qualche parte ci sei te e che faccio parte di un briciolo dei tuoi pensieri. Pensarti, sperarti, è questo che mi dà energia. Tipo che dopo la partita vado al bar e:
«Una bottiglia grande di Lei, grazie»
«Prego?»
«Ehm… una bottiglia grande di Gatorade, grazie».
Mi scombini l’esistenza e i modi di fare. Mi rincoglionisci.
«Un cornetto macchiato freddo e un caffè integrale con miele, grazie».
Sei la colazione perfetta. Il pensiero energizzante quando sono stanco. Fare errori e figure di merda non è mai stato così divertente da quando ti conosco.
Risata dopo risata, passeggiata dopo passeggiata mi sono reso conto di una cosa preziosa: sei tu il mio sport drink preferito.

 

Andrea Abbafati

Safe Zone

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Lei è nuda sul suo letto. Completamente nuda, con un fumetto in mano.
La guardo. Sono davanti a lei, nudo, senza vergogna. Non provo mai vergogna davanti a lei, neanche quando non ho niente addosso. Non sento mai la necessità di specchiarmi per vedere se c’è qualcosa che non va, come invece faccio praticamente sempre in sua assenza. Nessun chilo di troppo, nessun chilo di meno. Niente troppi capelli, niente troppo pochi capelli. Nessun centimetro in più, nessun centimetro in meno. Sto bene così.
Mi siedo sul suo letto e continuo a fissarla; la guardo mentre sfoglia le pagine del fumetto e legge, attenta. Ogni tanto si scosta i capelli e riesco a vedere il lato sinistro del suo volto, intravedo qualche spruzzo di quelle lentiggini che mi fanno impazzire. Sfoglia, legge, poi sfoglia di nuovo. Lei è una delle poche superstiti che quando sfogliano le pagine non si leccano le dita contaminando l’intero libretto con la saliva. La amo anche per questo.
«Leggi?» le domando. Stacca per un attimo gli occhi dai balloon che le stanno raccontando la storia e mi sorride: «sì», dice. Poi chiude leggermente il fumetto quel tanto da farmi leggere il titolo, che non mi è assolutamente nuovo. «Ferma, ma non ti ho prestato io il primo numero della saga?». «Sì» afferma sorridente, «da lì ho preso a consumarli uno dopo l’altro. Ora sono arrivata al diciassettesimo volumetto». SBEM. «E perché non mi hai detto niente?» chiedo. «Perché non puoi immaginare che soddisfazione provo in questo momento a vedere la tua espressione di stupore, dolcezza mia» dice, poi scoppia a ridere e posa di nuovo gli occhi sulla sua nuova avventura preferita. Sbuffo, ma non le tolgo gli occhi di dosso. Studio i particolari più nascosti del suo corpo, anche se li conosco già a memoria.
Sfoglia, legge, poi sfoglia di nuovo.
Mi sdraio sul letto, al suo fianco. Il suo odore mi devasta le narici. Improvvisamente sento che prende fiato. Sta per parlare. Anzi no, non sta semplicemente per parlare. Sta per dire qualcosa di importante, lo capisco da come prende fiato.
«Comunque devo dirti una cosa»
«Spara»
«Devo ringraziarti»
«Per cosa?»
«Per questo». Mi sventola il fumetto davanti.
«E perché?» chiedo.
«Perché ho scoperto che è un’ottima scusa per dormire tardi la notte e alzarsi presto la mattina» spiega.
«In che senso?»
«Nel senso che mi affascina la storia. Amo i personaggi. Provo stupore per quello che potrebbe succedere da un momento all’altro. Da una pagina all’altra. Anche se non so quanto possa essere positiva come cosa, ora che ci penso»
«E perché non dovrebbe essere una cosa positiva, scusa?» chiedo.
«Perché ultimamente mi ritrovo ad avere più fiducia in questa storia disegnata che nelle persone che conosco da una vita e delle quali mi fidavo».
Silenzio.
Pausa.
«La cosa mi fa male, tutto qua» conclude.
Rifletto. Lei posa il fumetto sul lenzuolo e guarda il vuoto davanti a sé. Prende fiato. Altro discorso importante in arrivo.
«Ma secondo te»
«Eh»
«Basta essere buoni?» chiede.
«In che senso?»
«Cioè… nel senso… boh… cioè… secondo te io sono buona?»
«Vuoi che ti assaggio? Lo faccio eh. Anche se l’ho fatto giusto poco fa e…»
«Dai non fare il porco!». Ride. «Hai capito che intendo!»
«Sì che l’ho capito» confesso. «Comunque sì. Sei buona. Punto»
«Come i protagonisti di questo?» e mi sventola di nuovo il fumetto davanti, sostituendo nelle mie narici per un attimo il suo odore con quello della carta.
«Sì. Molto di più»
«E come fai a dirlo?»
«Intendi togliendo il fatto che vengo a letto con te e ti conosco da tanto ormai? Beh, lo dico perché lo sento. Emani una sensazione buona. Sempre».
Silenzio. Riflette. Non sa se credermi o meno.
«Può andare» dice, sorride e torna a leggere.
Mi crede.
La guardo che sfoglia. Sfoglia, legge, poi sfoglia di nuovo. Di nuovo. E di nuovo. E di nuovo.
Stavolta sono io a prendere fiato.
«Paradossalmente, quando si cade in una pozzanghera di fango a volte si esce puliti» dico.
Si ferma. Non toglie lo sguardo dal fumetto ma ha smesso di leggere, gli occhi sono fissi, immobili.
«Che hai detto?» chiede.
«Ho detto che paradossalmente…»
«No, no, ho capito che hai detto… intendo dire… è tua?»
«Sì»
«È bellissima»
«Grazie»
«Come ti è venuta?»
«Guardandoti».
Silenzio. Momento imbarazzo. Stacca gli occhi dalla pagina e li fissa nei miei.
«Guardandomi?» chiede, poi sorride.
«Sì. Te l’ho detto. Sento che sei buona. Emani una sensazione buona. Mi ispiri cose buone. Sei buona»
«E pulita?» domanda.
«Sì. Buona e pulita»
«Più pulita di prima?»
«Assolutamente»
«E perché?»
«Perché ti ho leccata tutta!»
«E smettila di fare il porco ho detto!» e via, prende un cuscino e me lo lancia addosso. Poi ride. Ride di gusto. Ride che è bella.
«Sei la mia Safe Zone» dico.
«Safe Zone?» chiede.
«Sì, la mia Safe Zone. La mia Zona Sicura» spiego.
«Suona tipo come una delle tue solite robe zombie… sbaglio?»
«No, non sbagli… ma è una cosa bella. Sei una certezza. Una sicurezza. Meriti la mia fiducia. Sei la Safe Zone»
«Cioè con me ti senti al sicuro dagli zombie?»
«Non solo dagli zombie, ma da tutto»
«Tutto tutto tutto?»
«Tutto tutto tutto»
«Fico! Sono la tua Safe Zone pulita!»
«Sei pulita perché sei uscita dal fango. Il fango s’è preso tutte le cose sporche che avevi addosso e ti ha lasciato i suoi scarti, quelli di cui poteva liberarsi. Tutta la roba che era di troppo, l’ha lasciata a te»
«E perché?»
«Per liberarsene. La pozzanghera ha acquisito il tuo sporco, fresco, nuovo, forte e doloroso e ti ha ceduto il suo, usato, vecchio, raggrinzito e puzzolente, ma viene via che è una meraviglia, te lo assicuro. Basta farlo seccare un po’»
«E che senso ha? Perché avrebbe dovuto lasciarmi qualcosa di suo?»
«Perché altrimenti sarebbe esplosa. Non può contenere tutto lo sporco del mondo, soprattutto se stiamo parlando di una piccola pozzanghera di fango»
«Mh. No, credo sia una grossa pozzanghera»
«Beh, anche le grosse pozzanghere hanno un limite di sopportazione. Anche loro accumulano esperienza, sporco, roba da buttare e dopo un po’ devono svuotarsi»
«E dici che la roba che aveva da buttare l’ha data a me in cambio della mia?»
«Certo bella mia… il fango ti ha dato l’esperienza. Tutti quegli scarti che ti sei tolta poi in doccia, tutto quello sporco raggrinzito che ti ha sporcato i vestiti… ti hanno fatto capire che non restano per sempre, che vanno via con un po’ d’acqua. Basta cadere nello sporco e avere la forza di uscire e lavarsi. Ripulirsi».
Posa di nuovo velocemente gli occhi sul fumetto ma li toglie subito e li punta nuovamente contro i miei.
«E… io ti ho ispirato tutta questa storiella?»
«Assolutamente»
«Wow. Forte» sussurra, poi chiude il fumetto. Mi guarda. «Sai… ora che me lo fai notare… è bello essere puliti». Sorrido. «Ti senti un po’ più buona adesso?» chiedo. Mi si avvicina lentamente poi si ferma di botto, il suo naso che sfiora il mio.
«Non so come mi sento sinceramente ma sì, forse un po’ più leggera. Pulita. Forse anche buona»
«Visto? Basta farsi una doccia dopo una bella nuotata nel fango» dico. Lei ride. «Probabilmente, sì» dice. «Ma il mio è uno sporco forte, di quelli incrostati per bene. Credo che farò un’altra doccia». «Bene» dico, «ti aspetto qui allora!».
Si alza. È nuda, davanti a me, in piedi sul letto. Mi guarda dall’alto. Sorride. Salta giù dal letto e si dirige verso il bagno poi si ferma di colpo. La sento prendere fiato. Sta per dire nuovamente qualcosa di importante. Anzi, di importantissimo, perché fa una lunga pausa, volta leggermente la testa verso destra, fa un ghigno strano e…
«Pensavo… in due lo sporco viene via meglio… giusto?».

Andrea Abbafati

Immagine di copertina di Martina Greco

 

Il bicchiere di vita in questa birra di merda

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Novembre, ore 23.00. Esterno. Dal pub poco distante da noi esce musica house, dance… non so bene, non seguo il genere. So solo che fa “bum bum bum”. Ho gli occhi chiusi, mi lascio cullare dal silenzio rotto dalla musica assordante e dal sapore della birra fredda, poi c’è lei, al mio fianco. Sento la sua presenza, il suo sguardo, il suo respiro.
«Terra chiama Luna, Terra chiama Luna… Luna mi ricevi?».
Apro gli occhi. Lei mi guarda sorridente. «Ma buongiorno» dice. «Mpf», le rispondo. «Sei bloccato? Che hai?» domanda. «Niente, niente. Fa freddo» rispondo. Mi si avvicina, mi mette il braccio sinistro lungo le spalle e mi stringe a sé. «Se vuoi ci spostiamo dentro, il pub è pieno ma un posto lo troviamo sicuro» propone; «no macché, va bene qui. Adesso sento caldo» dico. Lei ride, poi poggia il bicchiere di birra quasi vuoto (o quasi pieno) sulle labbra e beve. Faccio lo stesso, anche se il mio di bicchiere è decisamente più quasi vuoto (o quasi pieno). Improvvisamente mi viene un’idea, stacco il bicchiere dalle labbra, mando giù la birra gelida e dico: «il bicchiere di vita in questa birra di merda». Lei smette di bere e mi guarda accigliata: «eh?». «Il bicchiere di vita in questa birra di merda» ripeto. Lei guarda il bicchiere poi dice: «se la birra fa schifo la finisco io… a me piace». Silenzio. «Ho avuto un’idea» dico. Lei capisce: «non farai come l’altra volta a lavoro che sei partito col furgone vuoto perché avevi capito come finire una delle tue storie eh?» e scoppia a ridere. Sbem. Colpito in pieno. Orgoglio ferito. «So che non sembra, ma non sono così rincoglionito: imparo dai miei errori» dico con una punta d’acido piuttosto evidente. «E come avresti risolto la cosa per non ritrovarti licenziato un giorno di questi?» chiede lei curiosa, col sorriso furbetto sempre stampato in faccia. «Comincio a pensare solo dopo aver caricato tutto. Niente pensieri, storie e idee dalle tre e trenta alle cinque del mattino e dalle dodici alle dodici e trenta del pomeriggio» dico. «Ottimo. E ci riesci?» chiede curiosa. «No» rispondo con amarezza, «ma ci provo con abbastanza impegno, tutti i giorni». «Non male, cowboy, non male!» esclama, mi dà un colpetto sulla spalla col pugno sinistro mentre riprende a bere la birra, che finisce. «Senti, vado a prenderne un’altra… tu la vuoi?» mi domanda. Guardo la birra, porto nuovamente il bicchiere sulle labbra e verso il contenuto in bocca, poi mando giù. «Sì, grazie» dico. «Sempre la stessa?». «Sempre la stessa». Prende il mio bicchiere vuoto e va, entra nel pub. Resto solo. Silenzio e musica. Solo silenzio e musica. Dicono che quando uno muore vede tutta la sua vita passargli davanti. Sto forse morendo? Adesso? Vedo tutto. Le mattine fredde a far colazione con lei, con gli amici. Le serate gelide a baciarsi, mezzi nudi nel parcheggio che la macchina è troppo piccola. I progetti fatti, i fogli di carta scritti. Chi se ne è andato. Chi è rimasto. Chi rimarrà. La palestra. La scuola. Il lavoro. I colleghi che ti offrono il caffè. I tatuaggi. I ‘grazie’. Le lacrime. La saliva sulle labbra. I battiti che aumentano.

I battiti che aumentano.

Apro la bocca.

Vado a tempo e parlo.

Vado a tempo.

Parlo.

Respiro forte, vado a tempo e parlo:
«Le cazzate che faresti per dimostrare ‘sta cosa ti uccideranno. I fremiti, il sudore, le notti in bianco, la musica rap nelle orecchie, le lacrime e le ansie che bruciano. I chilometri che faresti per dimostrare questo amore, i film che guarderesti per sopprimere questo orrore. La roba che scrivi, che c’hai da fa, la gente che ti dà retta. Le notti in bianco, il bicchiere di birra notturno e la corsa il giorno dopo. La puzza di polvere sotto il naso, le foto da modificare, le locandine fatte in casa con i pixel che prendono vita. Le imprecazioni, i ricordi, i curriculum sopra e sotto i copioni scritti e cestinati. La roba che scrivi, che c’hai da fa. Le notti in bianco, le lei dimenticate ma manco tanto, la tastiera vecchia che scricchiola, l’aria pesante che puzza, la guerra che fuori gioca a nascondino, la gente che ti dà retta. Il cappuccino alla mattina con gli altri, il caffè subito dopo, le gomme da masticare per dominare l’ansia, che non è precisamente ansia da prestazione. È ansia di essere all’altezza. L’ansia. I caffè, la gente che ti dà retta. Il bicchiere di vita in questa birra di merda. La roba che scrivi, che c’hai da fa, la gente che ti dà retta, il sipario vecchio che profuma di nuovo, gli occhi che ti guardano, la gente che entra e esce, la fiducia che non c’hai ma che ti danno loro. Il bicchiere di birra notturno e la corsa il giorno dopo. Il sipario vecchio che profuma di nuovo».
Silenzio. Anche la musica sembra fermarsi. Sento una presenza dietro di me. È lei.
«Dovresti bere ogni sera se l’alcol ti porta a partorire queste cose»
«No, non sempre. Oggi è una serata fortunata, forse»
«Avresti il permesso di essere licenziato tutte le volte che vuoi. Dovresti camparci con questa roba, sai?»
«Camparci? Ma mi hai visto?»
«Ti ho visto, ti ho visto. Il tuo problema è che metti radici, sempre detto io»
«Radici? In che senso?»
«Tieni, prendi la birra che ti spiego. Questo giro lo offro io» e si siede sul muretto. Intanto la musica ricomincia. Io sorseggio la birra in piedi, gli occhi su di lei, ma lei sta zitta e mi guarda, quindi mi siedo e lei comincia a parlare. «Metti radici. Ti aggrappi alle cose poi, appena queste giustamente e per natura cambiano o cessano di esistere, resti bloccato, spiazzato. Come con le tue ex. Mi hai detto che hai buttato tutti i loro regali, no?». La guardo. È una trappola? «Certo» rispondo, «ma che c’entra adesso?». «C’entra eccome, bimbo. Credi in quello che fai, ma fallo per te, non per gli altri. Per te. Punto» dice, poi beve un sorso di birra.
Ha ragione.
«Ok, allora da oggi basta festeggiare per gli obiettivi raggiunti. Hai ragione. Basta sorrisone soddisfatto, basta entusiasmo e basta restarci male per le cose quando vanno male o comunque non come vorresti» dico. Lei smette di bere. «Non hai capito una ceppa. Non dico di smettere di provare emozioni, porca vacca. Dico che dal principio devi fare una cosa per te, non per gli altri. Capito? È normale poi rimanerci male. Devi provare a non mettere radici. A sentirti libero, non legato a qualcosa o a qualcuno, altrimenti non vivi più. Le persone cambiano, gli eventi cambiano. Tutto cambia bimbo. Anche tu. Quindi perché aspettarsi l’alba di sera?» e continua a bere. Fisso la birra come uno che ha appena ricevuto una botta in faccia. Rifletto. Perché aspettarsi l’alba di sera? «Non pensarci troppo», dice, «non ci guadagni niente. Almeno stasera non pensarci. Bevi e basta, stavolta non ti faccio la paternale» dice lei. «Capirai, ‘sta birra farà sì e no cinque gradi» preciso io. «Allora non ubriacarti di birra, ma di libertà. Di silenzio. Lo senti il silenzio? Ecco. Azzera tutto. Spegni il cervello. Svuota tutto. Bevilo ‘sto bicchiere. Bevilo tutto. Vedrai che starai meglio. Com’era? “Il bicchiere di vita in questa birra di merda”» e mi bacia, poi alza il bicchiere: «cin cin!».

Andrea Abbafati

In ritardo

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Squilla il cellulare. È lei. Accetto la chiamata, poso l’apparecchio all’orecchio e sto zitto.
«Oh» dice
«Oh» rispondo
«Beh?»
«“Beh” che?»
«Ma come “beh che”?»
«Eh, beh che?»
«Sei sveglio?»
«Ma certo che sono sveglio, ti sto parlando»
«Sì, nel senso, sei sveglio? Cioè, sei sveglio da un po’ o ti ho svegliato io?»
«Mi sono svegliato poco fa, tranquilla, non mi hai svegliato»
«Ah. Peccato»
«Ma come peccato?»
«Hai dormito dodici ore. Sai che spasso sarebbe stato svegliarti? Rincoglionito al massimo»
«Vaffanculo»
«Ah, ci siamo svegliati male, Oxford?»
«Ho dormito dodici ore perché sono a riposo e ieri ne ho passate ventiquattro sveglio»
«Lo so, cretino. Ti stavo prendendo in giro»
«Ok»
«Ok».
Silenzio. Sento che prende fiato dall’altra parte della cornetta

«Rosicone come pochi» esclama all’improvviso
«Non sto rosicando!»
«No, assolutamente»
«No infatti, assolutamente»
«Bene allora, meglio»
«Sì, meglio».
Di nuovo silenzio.

«Rosicone potentissimo»
«Oooooh Madonna, ma che è oggi?»
«Oggi è giovedì, signorino, ed è precisamente mezzogiorno»
«Lo so che giorno è, so anche che ore sono»
«Bene»
«Ancora con ‘sto “bene”?»
«Cosa vuoi che ti dica? Se vuoi tolgo il “bene” e dico altro»
«Ecco, sì, di’ altro»
«Perfetto, allora dico: sei in ritardo, coglione, dovevamo vederci alle dieci e trenta. Va meglio così?».

Porca puttana.

«Porca puttana»
«Eh, esattamente»
«Scusa, me ne sono totalmente dimenticato. Porca puttana»
«Dove sei ora?»
«A casa. Precisamente sul letto, guardavo il vuoto fino a qualche secondo fa ma mi sto già spogliando, mi lavo, mi vesto e sono da te»
«Dobbiamo vederci in piazza»
«Eh, lo so, tu sei già lì no?».
Silenzio.

«Oh? Tu sei in piazza, no?»
«No… sono a casa»
«Ah, va beh immagino tu sia tornata a casa quando hai capito che non sarei arrivato. Giusto»
«No, sono a casa. Sono ancora a casa. Non sono proprio uscita».
Silenzio. Capisco.

«Ho paura di chiederti perché» dico
«Eh…»
«Perché?»
«Ma che ti importa del perché? Meglio no? Mi vieni a prendere e andiamo insieme!»
«Perché?» insisto.
Silenzio, di nuovo. Sento che trattiene il respiro.

«Perché sapevo che avresti tardato. Di parecchio. Come sempre. Certo, non pensavo di dover aspettare un’ora e mezza, son sincera».
Sbem. Steso.

«Scusa», «scusa», all’unisono, due scuse.
«No, scusa tu», «no, scusa tu», all’unisono, di nuovo due scuse.

«Senti, ti chiedo scusa io del ritardo e dei ritardi passati. T’ho detto, mi lavo, mi vesto e corro da te, ti prendo e andiamo insieme». Silenzio. «Ti sei offeso?» mi domanda, «ma di che?» rispondo, «hai semplicemente detto la verità. Faccio sempre ritardo. Sempre oh, capitasse una volta che riesco a calcolare i tempi». Silenzio. Troppo silenzio. Se la conosco bene sta preparando una battuta delle sue. «Beh, a letto i tempi li sai calcolare benissimo. Mai lamentata». Appunto. «Ma come te ne esci?» chiedo, «dai, scemo, stavo scherzando, era una battutina per scaldare ‘sto gelo che si è creato», «niente gelo, per carità, hai ragione. Un’ora e mezzo di ritardo è imperdonabile. Oh, metto vivavoce, mi do una sciacquata», «Ok».

Faccia, mani, piedi, collo e tutto. Lavo i denti, indosso qualcosa velocemente poi mi reco in cucina. Mi accorgo della cazzata fatta e impreco. Lei sente.

«Oh»
«Eh»
«Che è successo? Sbattuto il mignolo?»
«Macché. Mi sono lavato i denti prima di fare colazione»
«Senza parole»
«Oh senti, questa è la fretta. Mi stai mettendo pressione»
«Ah! Io ti metto pressione adesso?»
«Ma dai, sei lì al telefono che canticchi quel tormentone maledetto che odio! Guarda che sento tutto eh!»
«Oh, se vuoi attacco senza problemi»
«No macché, mi fa star bene sentirti presente».
Silenzio.

«L’hai detto» dice lei
«Sì, l’ho detto» ammetto
«Ma allora non ti sei svegliato col rodimento di palle! Che teneroso che sei»
«Eh, lo so, sono bravo a farmi amare».
Apro il frigo e scarto il primo yogurt che trovo, poi metto a fare il caffè mentre il suo respiro dall’altro capo del telefono mi rassicura. «Senti piuttosto, come è andata ieri la cena con gli amici?» domanda lei, «tutto ok. Stavamo in un bel posto in montagna, a casa di un amico, ti sarebbe piaciuto», «cosa? Il posto o l’amico?» domanda lei, io sto zitto. «Sto scherzando, deficiente», «lo so, simpatia. Comunque mi sei mancata. Abbiamo fatto mezzanotte, volevo chiamarti ma mi avevi detto che avevi sonno, quindi ho lasciato stare», «lo sai che puoi chiamarmi quando vuoi, vero?», «lo so, ma so anche come diventi quando vieni svegliata mentre dormi beatamente». Silenzio, la sento ridere silenziosamente, «hai ragione» dice. «Comunque ho fatto una foto al panorama che si vedeva dalla piscina. Tra poco te la mando. Sai cosa? Ci vediamo sempre, ma ieri mi sei proprio mancata», la sento che trattiene forzatamente una risatina orgogliosa, «mi mancava vederti, poter contare su di te e poi, oh, mi mancava anche bere con te, ubriacarci insieme e buttarci in piscina come due coglioni» e qui scoppia a ridere di gusto, «mai fatto nulla del genere, nego tutto!» esclama divertita. Finisco lo yogurt, verso il caffè nella tazza e lo bevo senza zucchero, tutto d’un fiato, poi mi ricordo di una cosa: «oh, dopo devo farti sentire un pezzo nuovo», «ah sì? Di chi è?», «degli 883, ultimamente la loro discografia gira spesso nello stereo della macchina», «aspè, ma gli 883 non si sono sciolti tipo nel 2002?», «sì mi pare di sì», «embè? Un pezzo “nuovo”?» ride, «e va beh, io ieri l’ho ascoltato per la prima volta, per me è nuovo» e scoppia a ridere di nuovo, stavolta seguita di cuore da me, «C-O-G-L-I-O-N-E-E-E-E!» urla tra una risata e l’altra e io vorrei tanto baciarla, perché mi fa stare bene. «Che poi, 883. Periodo pesante?», «Pesantino. Alterno 883 a Battisti e Zucchero, per farti capire», «Madonna» esclama lei, stupita.

«Oh, io ho fatto, sto per partire»
«Oh, mi raccomando, niente ritardo oggi eh»
«Sei veramente stronza. Ti piace rigirare il coltello nella piaga eh?»
«Non sai quanto. Godo nel farlo!»
«Quasi quasi ti lascio a piedi»
«Provaci. Devi solo provarci, ti raggiungo e ti prendo a calci nel»
«Va bene ho capito» la blocco io, «ti vengo a prendere»
«Bravo signorino. Oh, mi raccomando, t’aspetto. Testa leggera eh»
«Ci provo belle’, ci provo»
«Vedi di riuscirci. E sbrigati che devi farmi vedere la foto e sentire la canzone. Ma vai piano»
«“Sbrigati ma vai piano”, certo»
«A tra poco, scemo»
«Arrivo, scema».

Parlare del nulla, sentirsi meno soli, ridere di gusto, che tutto va una merda nel mondo e io mi prendo cura del mio respiro e del suo. Dei respiri di chi mi vuole bene. Chiudo tutto. Spengo tutto. M’aspetta lei. Scusate, non aspettatemi, anche oggi come sempre sono in ritardo.

Andrea Abbafati

Di barche, di promesse, di capelli sciolti

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«Oh»
«Eh»
«Vedi che faccio ritardo»
«”Buon anno!”»
«Anche a te».
Sospira. Si sente la rassegnazione che attraversa la rete telefonica.
«Sei un idiota» dice. «Grazie» rispondo. «Ti sto aspettando da mezz’ora in piazza. Fa un freddo bestia. Dove sei?» chiede.
Domanda sbagliata. Domanda sbagliatissima.
«A casa».
Silenzio. «A casa? Che vuol dire che sei a casa?». Sospiro. «Sì. Sono a casa. Seduto in camera. In mutande». Di nuovo silenzio. «Sei a casa, seduto in camera, in mutande?» ripete domandando più a sé stessa che a me. «Sì» dico io. «Mea culpa» aggiungo.
Silenzio. Mamma mia quanti silenzi.
«Non dici niente?» chiedo. «Meglio per te che non dica niente, fidati». Sogghigno, lei mi sente. «Che ridi, cretino?». «Non sto ridendo… sto sogghignando. Comunque scusa, davvero. Dammi dieci minuti e arrivo». «Dieci minuti e arrivi?». «Sì, il tempo di fare una doccia e sono da te. Va beh, forse più di dieci minuti…». Silenzio.
«Ancora con questi silenzi… ho avuto un problema, ok? Ti chiedo scusa». «Che problema hai avuto? Roba grave?» chiede lei improvvisamente preoccupata. Penso. Roba grave? «Non lo so. Forse sì, forse no. Pensavo». «Pensavi». «Pensavo, sì».
Silenzio.
«Beh, anch’io pensavo» dice. «A cosa?» chiedo. «A quanti schiaffi ti prenderai prima della mezzanotte» taglia corto.
Brividi. Silenzio. Brividi di silenzio.
«Ci tengo a te» dico io. «Non mi compri con le smancerie questa volta. Buffone» dice lei.
Sorrido.
Prendo fiato.
Parto.
«Pensavo a quest’anno che è passato. A me. A te. A noi. Poi di nuovo a te. Pensavo a quanto bella sei, alle persone che ho perso, a quelle che ho incontrato. Pensavo a questa roba qua… e mentre ci pensavo mi sono seduto e sono rimasto così tipo per un’ora. Ti chiedi mai se facciamo abbastanza? Non voglio attaccare un pippone ma… davvero, facciamo abbastanza secondo te? La gente si accorge che esistiamo? Che facciamo cose? Che ci amiamo… che ci vogliamo bene? La gente capisce il senso delle nostre cose? Braccialetti… tatuaggi… sguardi… foto… sacrifici… chili in meno… chili in più… rancori… la gente capisce tutto questo o semplicemente chiude gli occhi e scappa? Se sì, se no… che senso ha tutta questa matassa di roba sensata o meno?».
Prendo fiato nuovamente ma lei mi interrompe prima di iniziare a parlare. «Fermo» dice. «Ho capito». Pausa. «Ho capito tutto».
Sorrido.
Prende fiato.
«Non me ne frega niente della gente. Quello che faccio lo faccio perché fa stare bene me e chi amo. Tatuaggi, braccialetti, collane, capelli sciolti, capelli legati, mezz’ora ad aspettare in piazza…» (pausa punitiva) «…tutto questo ha senso per me. Cosa deve capire la gente? Che mi vedo brutta? Che mi vedo bella? Che tengo a te? Che fa freddo e voglio abbracciare qualcuno? Cosa devo spiegare, alla gente? Chi salta dalla barca ha un motivo, una destinazione ed è un vincente per questo, anche se abbandona la nave. Chi resta, lo fa perché ha trovato casa, perché sta bene, perché ha trovato un motivo per non saltare giù. Ha trovato un motivo per rinunciare alla libertà di andarsene».
Tutto chiaro. Come sempre. Come ogni volta che parla lei.
«E adesso porca la vacca, vienimi a prendere che fa freddo, mannaggia a me e a quando sono puntuale!» sclera.
Sorrido. Scoppio a ridere. «E’ vero» dico, «ho freddo anch’io». «E ti credo! Sei in mutande, deficiente!». Scoppiamo a ridere insieme.
«Oh»
«Eh»
«Arrivo. Facciamo mezz’ora, ok?»
«Ok»
«Prepara gli schiaffi»
«Non c’è bisogno di ricordarmelo»
Rido.
«Arrivo»
«Ti aspetto»

Andrea Abbafati

SOS

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L’una di notte. Probabilmente sto facendo la cazzata più insensata della mia intera vita ma poco importa. La faccio. Voglio farla.
Sto per spegnere l’auto ma improvvisamente dallo stereo parte una canzone rap strana, mai ascoltata prima. Ne seguo attentamente il testo… riesce a coinvolgermi, mi ispira e subito vorrei tornare a casa a scrivere per sfogarmi un po’ ma penso che qui ci sei tu, quindi resto. Mentre aspetto che finisca la canzone ecco che incomincia a pioviccicare. Le gocce scorrono lentamente sui finestrini dell’auto come volessero dirmi qualcosa, esortarmi a tornarmene a casa o a scendere dalla macchina.

La canzone finisce.

Spengo la macchina.

Apro lo sportello.

Esco.

Non piove forte ma fa un freddo cane. Esce vapore ad ogni pensiero che faccio. Sono praticamente una vaporiera.
La casa è lì davanti a me ma è tutto spento, anche le luci della sua camera.
Vai, si comincia.
Come nei libri che piacciono alle ragazze. Come nei film smielati che odio.

Mi chino.

Prendo un sassolino.

Lo lancio contro la sua finestra.

Tic.

Niente.

Di nuovo.

Tic.

Niente, di nuovo.

Di nuovo, di nuovo.

Toc.

«Quanto sei carino».

Sobbalzo.
Mi volto.
Lei è dietro di me, appena uscita da un cespuglio, come nei cartoni animati che amavo da ragazzino.
Il mio orgoglio si frantuma e la vergogna comincia a salire che è un piacere. «Che ci fai qua fuori?» riesco a balbettare. Improvvisamente, il caldo. «Stavo venendo da te» risponde lei. Eh? «Eh? In che senso?» chiedo io. «Stavo venendo da te a tirarti sassi alla finestra. Ammetto però che li avrei scelti un po’ più grossi dei tuoi…» risponde, poi sbotta a ridere e mi salta addosso abbracciandomi. «Ferma» insisto, «veramente stavi venendo da me? E perché?». Lei si stacca e mi guarda con un sorrisetto beffardo. «Perché no?». La guardo, lei continua a ridere. Tutto questo è umiliante. «Volevo farti una sorpresa» butto lì, «e avevo bisogno di te». «Avevi?» chiede, «ho» rispondo. Mi abbraccia di nuovo poi avvicina le sue labbra al mio orecchio sinistro e «tutto questo è molto romantico, carino» e scoppia a ridere di nuovo. E’ tutta una risata oggi. «Comunque piove» le dico, mentre la vergogna pian piano cala di intensità, «se restiamo qui ti bagni dalla testa ai piedi». Silenzio. Improvvisamente si blocca e mi fissa sbalordita. Passa qualche secondo, poi… si siede. La guardo confuso. «Che fai?» chiedo, ma lei non risponde quindi mi siedo al suo fianco e le poggio una mano sulla gamba. «Beh?» domando. Finalmente mi guarda, con le gocce d’acqua che le cadono dai capelli: «sono molto delusa. Davvero». Silenzio. «E’ da quando ci conosciamo che ti rompo le palle sul fatto che si fanno le cose in due… e ora?». Continuo a guardarla intontito senza capirci nulla. Lei capisce che non capisco quindi sbuffa e «mi bagno dalla testa ai piedi?» chiede, «mi?». Capisco. «Ci» mi corregge, «ci bagniamo! Perché “mi”? Tu sei impermeabile? Uff!». Uff. «Quando sbuffi così sembri un personaggio dei cartoni animati» le dico e subito lei comincia a prendermi a cazzotti alternandoli a minacce varie tipo “adesso ti faccio vedere io” e “ti graffio gli sportelli della macchina se mi paragoni nuovamente ad un cartone animato”. Poi si calma. Restiamo per un po’ in silenzio ad ascoltare il rumore della pioggia che ci bagna mentre il vapore che esce dalle nostre bocche fa disegni astratti per aria per poi sparire nel nulla.
«Comunque era un complimento» le spiego, «somigliare ad un cartone animato dico, era un complimento. Nel senso, sei buffa quando sbuffi in quel modo». Non l’avessi mai fatto. Mi guarda. La guardo. «Hai il naso grosso» sbotta improvvisamente. Sorrido. «Non hai nemmeno i capelli» aggiunge. Continuo a sorridere. «E poi sei anche stupido» conclude. Scoppio a ridere. «Lo sai che non mi scalfisci minimamente, vero? Sei troppo innocente per ferirmi a parole. E sai anche che i capelli me li rado, stupida» le spiego e subito lei trattiene il respiro, si morde le labbra e… «hai ragione. Non so offenderti. Hai perfettamente ragione». Mi rilasso. Ha gettato la spugna. Finalmente possiamo stare tranquilli.
«Non riesci nemmeno a fare una sorpresa che subito vieni sgamato».
SBEM. Lampo a ciel sereno. «Sei una stronza» dico. «Lo so» risponde lei.
Silenzio. La guardo. Mi guarda. Scoppiamo a ridere. «Ho vinto io!» dice lei tutta contenta. Sì, hai vinto tu, bella mia. Vinci sempre tu.
«Ha smesso di piovere» mi fa notare e subito si accovaccia a me, «se domani avremo la bronchite sarà esclusivamente colpa tua» continua sorridendo. «Comunque, come mai questa sassaiola? A cosa devo il piacere?» mi domanda mentre mi stringe forte a sé. «Diciamo che era un SOS». «Un SOS? Addirittura?». «Sì. Un SOS bello potente» concludo. Sì, un SOS veramente bello potente. Lei mi stringe sempre più forte. «Spara allora» dice, poi resta in attesa pronta ad ascoltare. Respiro. Mi avvicino lentamente a lei, poi… «BANG!». Stavolta è lei a sobbalzare, «sei veramente un cretino! Stupido! Stai facendo di tutto per allungare il brodo e tenermi appesa alle tue labbra… sei più noioso della tua serie tv sugli zombie preferita che ormai fa puntate di cinquanta minuti basate su colpi di scena inesistenti!» e ricomincia a prendermi a cazzotti. Io rido. Lei ride. Ricomincia a piovere. «Sono venuto perché amo abbracciarti e in una situazione di pericolo o di indecisione penso immediatamente a questo. Al fatto che amo abbracciarti» dico mentre la pioggia cerca di coprire le mie parole, quindi alzo leggermente la voce fregandomene del fatto che ormai si son fatte le due. «Ho una domanda da farti» annuncio e subito lei mi concede la sua attenzione alzando il sopracciglio: «spara» dice, «NO! Non farlo! Dimmi… DIMMI!» si corregge subito e io faccio veramente fatica a trattenere la risata per quanto è bella, ma il momento è serio: «non hai mai la paura improvvisa di restare da sola? Non pensi mai che magari un giorno ti sveglierai e ci sarai solo tu? Senza me… senza le persone che ti hanno accompagnata fino ad oggi… tu. Solo tu». Silenzio. Riflette. «Sola tipo come in una di quelle storie apocalittiche che piacciono tanto a te?» chiede. «Sì, anche» rispondo io, «più o meno dai. Facciamo che ti svegli sola, ma con la gente attorno. Cioè io ci sono, anche i tuoi amici… ma l’affetto che ci contraddistingueva no. Sei sola. Scopri improvvisamente di aver lottato per creare qualcosa ed essere stata l’unica a crederci e a volerla portare avanti davvero». La sento che pensa per qualche secondo poi fa una smorfia disgustata: «brutto» mormora. «Brutto sì» concordo, poi la stringo sempre più forte. «Beh… partendo dal fatto che se credo in qualcosa la porto avanti comunque… capita di restare da soli. E’ capitato, sta capitando e capiterà. Ma una volta presa una strada si deve proseguire, quindi se proprio mi ritroverò da sola vorrà dire che lotterò per sopravvivere come ho sempre fatto» spiega. «Sta alla base di tutto, no? Fa sicuramente paura… ma fa parte dell’animo umano. Ad un certo punto secondo me bisogna diventare egoisti, pensare prima a sé stessi e andare avanti, altrimenti si muore da soli. E deve essere veramente brutto morire da soli». Rifletto su ciò che ha appena detto mentre prende fiato e continua: «non so cosa ti sia successo ma se vuoi puoi approfittare del fatto di non essere solo e di avere me al tuo fianco» dice mentre mi stringe con una forza inaudita, «so quanta passione metti in tutto quello che fai… sei tale e quale a me, per questo ci prendiamo così bene. Pensiamo che tutti la pensino come noi. Siamo convinti che tutti siano disposti a sacrifici immensi per portare avanti la causa e restiamo sempre a bocca aperta come dei fessi quando scopriamo a nostre spese che non è così». La ascolto con attenzione e mi ritrovo nella descrizione: un fesso a bocca aperta. Mi ha capito. Mi capisce da sempre. Lei c’è e prende nuovamente fiato come se dovesse immergersi dentro di me per scovare la radice del problema: «potrai venire tutte le notti alla stessa ora qui e lanciarmi massi contro il vetro ma io sarò saltata fuori dalla finestra prima del tuo arrivo ogni volta, perché ti capisco. Perché non sto mai ferma ad aspettare, proprio come te. Siamo simili. Mai immobili. Neanche adesso: seduti su un prato sotto la pioggia, eppure mai stati così in movimento come ora. Ecco perché ti capisco: siamo soldati nella stessa guerra. Ci puliamo le ferite insieme perché sappiamo che se non ci medichiamo tra di noi siamo belli che spacciati».

Penso. Lei mi guarda. Io penso e lei mi guarda.

«Dove t’ho trovata?» domando. Lei ride. «Se non la smetti di fare il fesso ti lancio un sasso in faccia». La delicatezza. «Allora? Soddisfatto della risposta?» chiede. «Assolutamente. Un SOS magnifico» rispondo, «grazie. Davvero».  Silenzio. Lei solitamente odia i miei grazie ma questa volta non sembra voler dire nulla. Restiamo a guardarci in silenzio forse per ore, magari per qualche minuto, poi lei si alza, io faccio altrettanto, ci guardiamo, ci abbracciamo e da così, abbracciati, lei improvvisamente mi sussurra all’orecchio, con la sicurezza di chi c’è: «di niente, soldato».

Andrea Abbafati