RacCorto n. 4 – C’ho quasi trent’anni

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«Oh»
«Oi»
«Eh»
«Che dici?»
«Ti mando una cosa. Dimmi che ne pensi»
«Vai»

Invio.

«Ok, dovrebbe esserti arrivata»
«Una foto?»
«Sì»
«Sei te»
«Lo so»
«Vuoi che ti dica che sei bello?»
«Guardala attentamente»
«Cos’ha di strano?»
«Perché deve avere qualcosa di strano?»
«Tanta suspense per niente… è una tua foto normalissima»
«Guardala bene, ti dico!»
«Sei te. Cappuccio, cappello e mascherina. Siamo in piena pandemia. E allora?»
«Guarda bene gli occhi»
«C’hai le caccole?»
«Dai, su!»
«Oh, sono i tuoi occhi. La tua solita smorfia buffa, ma coperta dalla mascherina»
«No, questa è una smorfia diversa»
«Cioè?»
«È la smorfia di uno che ha appena scoperto di avere quasi trent’anni». Leggi tutto “RacCorto n. 4 – C’ho quasi trent’anni”

A lavoro tutto bene

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«Sai cosa mi manca veramente tanto?»
«Mh»
«Guardare il cielo di notte in mezzo alla campagna, prendere una birra in qualche pub squallido e puzzolente, mangiare dal cinese, poi fare lo spuntino di mezzanotte con la pizza appena sfornata e tornare a casa ubriaca senza avere l’ansia di pesarmi sulla bilancia la mattina dopo»
«Mh… forte»
«Già… a te invece cosa manca?».
Silenzio.
«Oi… ci sei ancora?»
«Eh? Ah sì, certo. Eccomi»
«Pensavo fosse caduta la linea»
«No, no… ci sono»
«Ci sei, ma non ci sei»
«Eh?»
«Se vuoi attacco e ci sentiamo dopo, non è un problema ciccio»
«Ma falla finita… ti pare? Ti ascolto»
«Eh, ma io ho finito di parlare da qualche secondo ormai, ciccio»
«Ah… scusa, ero soprappensiero»
«Me ne sono accorta, ciccio»
«Stai in fissa oggi con “ciccio”, eh?»
«Sì, ciccio. Scusa, C – I – C – C – I – O»
«Cretina».
Ride.
«Beh, insomma?» Leggi tutto “A lavoro tutto bene”

Virale

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Tic. Tic tic. Tac. Tic. Tac. Tic Tac.
«Ecco fatto. Lo sapevo io»
Tic tac. Tic-
«Cosa?»
«Vedi come finisce, eh…»
«Come finisce cosa? Non capisco».
Mi guarda, è mortificata: «scusa, ti ho interrotto».
La guardo.
«Non mi hai interrotto. Vai, di’!»
«No. Stavi scrivendo. Odio interromperti mentre scrivi».
Abbasso lo schermo del pc portatile e continuo a guardarla.
«Ecco fatto. Ora non sto più scrivendo. Niente più “tic tic tac”. Parla».
Eccolo qua: il sorriso più bello del giorno. Mi guarda. E sorride. Mi guarda e sorride. È seduta sul mio letto a gambe incrociate, indossa un maglione largo e dei pantaloncini da pigiama del tipo che adoro: cortissimi. Stava leggendo un Dylan Dog che le ho prestato ma ha smesso all’improvviso, lasciandoselo cadere tra le gambe. Beato Dylan Dog.
«Beato Dylan Dog»
«Eh?»
«Eh? Ah, no… mh… niente, pensavo ad alta voce». Mi guarda curiosa. «Dicevi?», butto lì.
«Niente… stavo leggendo il Dylan Dog che mi hai prestato…»
«Sì, ho visto»
«Cosa?»
«No, niente… dai, di’, non bloccarti sempre!»
«E niente, pensavo a questa storia del virus che gira…»
«Beh?»
«In questo fumetto Dylan affronta la fine del mondo… che finisce per un raffreddore».
Silenzio.
Idea. La guardo, mi avvicino sensibilmente e…
«Salute».
Fine. Cala il sipario. Il pubblico esce dalla sala deluso.
«Sei un coglione», dice lei, e non posso certo darle torto.
«Dai, giocavo», mi giustifico. «Comunque, dicevi?»
«Dicevo che vedi che risate ci facciamo se finisce tutto come hai sempre sostenuto tu»
«Io? Aspetta… che ho sostenuto io?»
«Apocalissi varie, zombie, “mirare alla testa”… tu guarda se non devo ritrovarmi in giro per la città alla ricerca di viveri con te che mi fai vedere come si fa per sopravvivere fracassando crani o robe così».
Pausa. Silenzio. Il pubblico torna in sala, la trama ha preso una piega insolita ed interessante.
«Ferma», la blocco io: «stai veramente dicendo che secondo te siamo nel bel mezzo di un’apocalisse zombie?»
«Ma ti pare? No! Sto solo dicendo che ho paura, tutto qui. La gente la sta prendendo davvero male… ogni giorno spuntano notizie nuove, per la maggior parte false… vengono assaliti i supermercati, viene continuamente puntato il dito verso chi potrebbe essere ‘infetto’… robe da film. Assurdo».
Sorrido.
Lei lo nota.
«Che sorridi?»
«Lo sai che sono preparato al peggio, vero?»
«Dai, imbecille! Sono seria!»
«Lo so, scusa… scusa!».
Lei si sdraia, il fumetto cade sul letto. Lo prendo.
«C’è psicosi nell’aria, si respira», dico. Lei mi guarda dal basso.
«Psicosi? La gente è impazzita»
«Sì, la gente è impazzita e infatti dimentica le cose importanti proprio come succede sempre nei film, tanto per cambiare»
«Cioè?»
«Cioè, non rispetta le norme di sicurezza, diventa egoista, mette a rischio la propria salute e quella degli altri senza pensare alle conseguenze, ed ecco qua che anche una cosa gestibile diventa complicata, pericolosa. Nei film di zombie funziona sempre così… tu ridi, ma è vero. Si crea il panico, il caos totale, quando basterebbe stare fermi un attimo, riflettere, aiutare il prossimo in difficoltà»
«Fammi capire», interrompe lei: «quindi tu non hai paura?»
«Non si tratta di avere paura, ma di avere cervello».
Il pubblico impazzisce. Scrosci di applausi. Anche gli spettatori meno convinti tornano al proprio posto.
«C’è solo un problema», continuo.
«Cioè?»
«Il cervello non è virale quanto un virus o la paura. Non si attacca facilmente, spesso viene evitato come la peste. Ecco perché ci si ritrova in situazioni come queste»
«Mh».
La vedo pensierosa, non ancora convinta al cento per cento.
«Non ti ho convinta, eh?»
«Quasi»
«Mh. Meglio di niente»
«Appartengo alla stirpe dei San Tommaso, lo sai… prima di credere in qualcosa devo toccare con mano!»
«Figurati».
Mi alzo, apro l’armadio, lei mi fissa e si solleva restando seduta sul letto a fissarmi.
«Che fai?»
«Niente, prendo la mazza da baseball»
«Perché?»
«Restando in tema cervelli, metti caso scoppiasse seriamente un’apocalisse zombie…».
Silenzio. Il pubblico trattiene il fiato. Lei pure.
«Sto scherzando, cretina, prendo i preservativi».
«Sei un maiale! E comunque non si può fare niente, va mantenuta la distanza di sicurezza di un metro! E ti prego, non fare le tue solite battute sulla lunghezza del tuo coso…»
Risate, il pubblico adulto si rilassa. I bambini non capiscono la battuta.
«E va bene, allora non si fa niente. Quarantena pura. Perfetto».
Sorride, si alza e si toglie il maglione, io resto a fissarla mentre si abbassa anche i pantaloncini super cortissimi.
«Beh? E la quarantena?»
«E che devo dirti? Sei tu l’esperto di film apocalittici, no?»
«E che c’entrano adesso i film apocalittici con te che ti spogli?»
«Le migliori storie che vengono raccontate dai tuoi film preferiti avvengono sempre perché qualcuno ha agito di testa propria per far fronte all’apocalisse, a volte addirittura mettendo a rischio la propria persona per amore».
Silenzio. Il pubblico capisce, o forse no. Trattiene il fiato.
«E… quindi?»
«Quindi, ognuno affronta la quarantena a proprio modo. Facciamo l’amore?»
Si avvicina. Mi bacia.
Sorrisetti tra il pubblico maschile e femminile. I bambini assistono schifati alla scena.
«Senti, io comunque scherzavo… non li ho i preservativi, li abbiamo finiti l’ultima volta…»
«Tranquillo… li ho io. Sicurezza e cervello prima di tutto».
Fine.
Applausi.
Il pubblico abbandona la sala soddisfatto. I bambini un po’ meno.
Miglior colpo di scena.
Migliore sceneggiatura.
Oscar.

Andrea Abbafati

Sport drink

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«Oi?»
«Oi»
«Finalmente. Ti ho fatto tre chiamate, pensavo fosse successo qualcosa. Sei sparito. Tutto ok?»
«Sì… sto un attimo incasinato in realtà… prima non potevo rispondere, scusa»
«Ti richiamo dopo? Tutto bene? Che è successo?»
«No, no tranquilla, ne sono uscito. Nulla di grave, dovrei aver risolto»
«Ne sei uscito da cosa? Mi stai facendo preoccupare»
«Senti, io te lo dico ma tu non ridere, ok?»
«Ma certo… spara…»
«BANG!»
«Oh, hai rotto i coglioni con ‘sta battuta tutte le volte! Io sono preoccupata e tu giochi?»
«Dai, scusa! Ok, vado… allora vado»
«Eh, vai…»
«Mi sono perso».
Silenzio.
Tanto silenzio. Sento solo il rumore del furgone sul quale sto posando le chiappe ma dal vivavoce del cellulare niente.
«Oh? Sei caduta?»
«Che significa che ti sei perso?»
«Cioè, non mi sono perso… nel senso… mi sono distratto, ecco»
«Ti sei distratto»
«Sì, mi sono distratto»
«Stai facendo il giro di consegna di Roma, giusto?»
«Sì, perché?»
«Lo fai da quattro anni ormai, no?»
«Quasi cinque in realtà, ma perché?»
«E ti sei perso?»
«No, ferma… cioè… non mi sono perso, mi sono distratto»
«Ti sei distratto»
«Oh Gesù… ho sbagliato strada, ok?»
«Hai sbagliato strada»
«Mi stai sul cazzo quando fai il pappagallo»
«Ma brutto fesso che non sei altro, mi ci fai capire qualcosa? Che significa che hai sbagliato strada?»
«Oh senti, non se ne può più… ti dico tutto e via»
«Hallelujah»
«Ho preso il Raccordo al contrario».
Silenzio lunghissimo.

 

Lunghissimo.

 

Lunghissimissimo.

 

«Sei caduta di nuovo?»
«Cioè fammi capire… hai preso il G.R.A. contromano?»
«NO! Ma che sei scema? Ti pare?»
«E allora che intendi con “al contrario”, scusa?»
«Intendo che l’ho preso direzione Firenze invece che direzione Napoli. Mi sono fatto cinquanta minuti in più ma sono quasi arrivato. Da ritiro patente proprio. Mi è pure impazzito il navigatore e non sapevo che cazzo fare. Sono andato tipo in crisi e quando sono per strada e vado in crisi non riesco a trovare nemmeno la via di casa mia grazie al mio meraviglioso senso dell’orientamento. I colleghi sicuro mi sfotteranno a vita».
Silenzio.
Ho come l’impressione che non saranno soltanto i colleghi a sfottermi a vita.
«Oh? Beh? Non dici niente?»
Ride. Scoppia a ridere dall’altra parte del telefono.
«Bene. Grazie. È sempre bello sentirsi capiti»
«Oddio scusa… scusa, scusa, SCUSA!! È che… boh… SCUSA!». E ride. Di nuovo.
«No ma lo capisco, figurati. Ora scusa ma metto giù che già ho l’orgoglio ferito, ci manchi solo tu a prendermi per il culo»
«No, fermo! Non ti sto prendendo per il culo, scemo! È solo che è una situazione buffa… che ti frega dei colleghi? Non è successo nulla di grave, hai soltanto sbagliato strada… pensi che a loro non capita mai?»
«Boh. Di sicuro sono bravi a non farlo notare»
«Che è decisamente diverso dal “non sbagliare mai”. Non trovi?»
Sorrido.
«Già»
«Comunque… come mai eri così distratto? Cosa gira in quella testaccia piena di cose? A che pensavi, fesso?»
«A te».
Silenzio. Questo sconosciuto amico.
«Ah. Sono fonte di distrazione quindi. Bene»
«Dai, scema… hai capito che intendo»
«Più o meno… quindi mi pensavi?»
«C’è un momento in cui non ti penso, secondo te?».
La sento che sorride.
«Mi pensi troppo evidentemente, scemo. Facciamo che quando vedi che pensandomi ti perdi nelle tue cose e nei tuoi pensieri mi chiami e ti rimetto sulla retta via, ok? Che dici, può andare?»
«Sì, credo possa funzionare. Bella idea!»
Ridiamo.
«Senti, piuttosto… come è andata la partita di basket, ieri sera? Poi non ci siamo più sentiti che sono crollata sul letto e non ho nemmeno messo la sveglia»
«Mh. Bene, dai»
«Ecco fatto. “Bene, dai”?»
«Sì, cioè… è andata bene. Ho giocato uno schifo ma stavo fisicamente e psicologicamente a pezzi quindi boh, forse è per quello»
«Posso venire a vederti giocare qualche volta?».
SBAM. Silenzio.
Stavolta è colpa mia.
«Oh? Sei caduto?»
«No, no… sono qua»
«Beh? Se non vuoi che vengo non è un problema eh!»
«No, ma scherzi? Cioè… ammetto che è una cosa che non ho mai fatto»
«Non ti sei mai portato una ragazza che ti piace alla partita di basket? Serio?»
«Non c’è mai stata una ragazza che mi piacesse come mi piaci tu interessata a venire a vedermi giocare a basket, è diverso»
«Ah! Beh… tadannnn! L’hai appena trovata!».
Scoppiamo a ridere nello stesso istante. Piccolo silenzio.
«Allora? Andata?»
«Certo. Assolutamente. Andata!»
«Senti ma… non è che ieri hai giocato uno schifo perché mi pensavi, no?».
E ride. Di nuovo. Ride che è una bellezza. Ride una risata senza pensieri. Ride una risata pulita, pura, bella.
«Chissà. Potrebbe essere. Ammetto che un po’ t’ho pensata tra un terzo tempo e l’altro»
«Mi ti immagino troppo a giocare a basket, tutto sudato che imprechi perché pensi di poter giocare meglio di quanto stai facendo».
Sorrido.
«Sì, più o meno sono così»
«Dovresti accettare il fatto di non essere perfetto ogni tanto. Dovresti sorridere dei tuoi errori ma soprattutto dei tuoi limiti. Dovresti essere fiero di ciò che sei e di ciò che stai facendo»
«Dici?»
«Dico, bello mio. Sei merce rara di questi tempi».
Silenzio. Penso.
«Già. Se lo dici tu… mi fido»
«E certo che ti fidi… vorrei vedere!»
«Oi, vedi che io sono arrivato… confermato per questa sera allora? Ci vediamo?»
«Certo che sì bello mio. Ci vediamo a ora di cena sul corso, facciamo una lunga passeggiata come al solito finché non sveniamo e poi ci mangiamo una cosa, che dici?»
«Dico che è perfetto, scema»
«Alla grande allora, scemo! E mi raccomando non perderti durante il tragitto!»
«Vaffanculo!».
Ride. Ride tantissimo.
«Come vuole, sir! Dai, gioco! Ci vediamo stasera… e fammi sapere quando fate la prossima partitella che vengo a fare il tifo e a tirarti la Gatorade in faccia quando avrai sete!». E mette giù, tra una risata e l’altra.

Avrei voluto dirtelo, ma pensavo fosse fuori contesto. Non ho bisogno di bevande colorate o di robe varie per aumentare la prestazione. Mi basta sapere che da qualche parte ci sei te e che faccio parte di un briciolo dei tuoi pensieri. Pensarti, sperarti, è questo che mi dà energia. Tipo che dopo la partita vado al bar e:
«Una bottiglia grande di Lei, grazie»
«Prego?»
«Ehm… una bottiglia grande di Gatorade, grazie».
Mi scombini l’esistenza e i modi di fare. Mi rincoglionisci.
«Un cornetto macchiato freddo e un caffè integrale con miele, grazie».
Sei la colazione perfetta. Il pensiero energizzante quando sono stanco. Fare errori e figure di merda non è mai stato così divertente da quando ti conosco.
Risata dopo risata, passeggiata dopo passeggiata mi sono reso conto di una cosa preziosa: sei tu il mio sport drink preferito.

 

Andrea Abbafati

Via di fuga

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Lasciami una via di fuga,
per quando mi stancherò.
Prestami un respiro,
per quando avrò bisogno.
Guardami negli occhi,
stringimi le mani,
parlami all’orecchio,
insegnami l’ovvio,
lascia che mi ci abitui,
dammi fiducia,
tanto tu resti.
Fai la conta con le dita contando chi rimane,
io fisso il tuo cielo separato dai miei dubbi.
Scaviamo una via di fuga,
per quando ci stancheremo.
Che sia d’inverno,
che sia d’estate,
“abbracciami che ho freddo”.
Mostrami una via di fuga per quando rimpiangerò,
ciò che sono stato,
ciò che ho fatto,
quello che ho ascoltato,
le mie stesse cicatrici.
Per dormire vicino al mare ci vuole coraggio,
lo stesso che serve per ricominciare,
ma dormirei anche senza fuoco in mezzo ai predatori,
se conoscessi la tua protezione.
Lasciami una via di fuga,
per quando avrò paura,
per quando sarò debole,
per quando non saprò che fare,
per quando sarò colpito,
ogni giorno.
Aiutami a fuggire.

Andrea Abbafati

 

 

Safe Zone

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Lei è nuda sul suo letto. Completamente nuda, con un fumetto in mano.
La guardo. Sono davanti a lei, nudo, senza vergogna. Non provo mai vergogna davanti a lei, neanche quando non ho niente addosso. Non sento mai la necessità di specchiarmi per vedere se c’è qualcosa che non va, come invece faccio praticamente sempre in sua assenza. Nessun chilo di troppo, nessun chilo di meno. Niente troppi capelli, niente troppo pochi capelli. Nessun centimetro in più, nessun centimetro in meno. Sto bene così.
Mi siedo sul suo letto e continuo a fissarla; la guardo mentre sfoglia le pagine del fumetto e legge, attenta. Ogni tanto si scosta i capelli e riesco a vedere il lato sinistro del suo volto, intravedo qualche spruzzo di quelle lentiggini che mi fanno impazzire. Sfoglia, legge, poi sfoglia di nuovo. Lei è una delle poche superstiti che quando sfogliano le pagine non si leccano le dita contaminando l’intero libretto con la saliva. La amo anche per questo.
«Leggi?» le domando. Stacca per un attimo gli occhi dai balloon che le stanno raccontando la storia e mi sorride: «sì», dice. Poi chiude leggermente il fumetto quel tanto da farmi leggere il titolo, che non mi è assolutamente nuovo. «Ferma, ma non ti ho prestato io il primo numero della saga?». «Sì» afferma sorridente, «da lì ho preso a consumarli uno dopo l’altro. Ora sono arrivata al diciassettesimo volumetto». SBEM. «E perché non mi hai detto niente?» chiedo. «Perché non puoi immaginare che soddisfazione provo in questo momento a vedere la tua espressione di stupore, dolcezza mia» dice, poi scoppia a ridere e posa di nuovo gli occhi sulla sua nuova avventura preferita. Sbuffo, ma non le tolgo gli occhi di dosso. Studio i particolari più nascosti del suo corpo, anche se li conosco già a memoria.
Sfoglia, legge, poi sfoglia di nuovo.
Mi sdraio sul letto, al suo fianco. Il suo odore mi devasta le narici. Improvvisamente sento che prende fiato. Sta per parlare. Anzi no, non sta semplicemente per parlare. Sta per dire qualcosa di importante, lo capisco da come prende fiato.
«Comunque devo dirti una cosa»
«Spara»
«Devo ringraziarti»
«Per cosa?»
«Per questo». Mi sventola il fumetto davanti.
«E perché?» chiedo.
«Perché ho scoperto che è un’ottima scusa per dormire tardi la notte e alzarsi presto la mattina» spiega.
«In che senso?»
«Nel senso che mi affascina la storia. Amo i personaggi. Provo stupore per quello che potrebbe succedere da un momento all’altro. Da una pagina all’altra. Anche se non so quanto possa essere positiva come cosa, ora che ci penso»
«E perché non dovrebbe essere una cosa positiva, scusa?» chiedo.
«Perché ultimamente mi ritrovo ad avere più fiducia in questa storia disegnata che nelle persone che conosco da una vita e delle quali mi fidavo».
Silenzio.
Pausa.
«La cosa mi fa male, tutto qua» conclude.
Rifletto. Lei posa il fumetto sul lenzuolo e guarda il vuoto davanti a sé. Prende fiato. Altro discorso importante in arrivo.
«Ma secondo te»
«Eh»
«Basta essere buoni?» chiede.
«In che senso?»
«Cioè… nel senso… boh… cioè… secondo te io sono buona?»
«Vuoi che ti assaggio? Lo faccio eh. Anche se l’ho fatto giusto poco fa e…»
«Dai non fare il porco!». Ride. «Hai capito che intendo!»
«Sì che l’ho capito» confesso. «Comunque sì. Sei buona. Punto»
«Come i protagonisti di questo?» e mi sventola di nuovo il fumetto davanti, sostituendo nelle mie narici per un attimo il suo odore con quello della carta.
«Sì. Molto di più»
«E come fai a dirlo?»
«Intendi togliendo il fatto che vengo a letto con te e ti conosco da tanto ormai? Beh, lo dico perché lo sento. Emani una sensazione buona. Sempre».
Silenzio. Riflette. Non sa se credermi o meno.
«Può andare» dice, sorride e torna a leggere.
Mi crede.
La guardo che sfoglia. Sfoglia, legge, poi sfoglia di nuovo. Di nuovo. E di nuovo. E di nuovo.
Stavolta sono io a prendere fiato.
«Paradossalmente, quando si cade in una pozzanghera di fango a volte si esce puliti» dico.
Si ferma. Non toglie lo sguardo dal fumetto ma ha smesso di leggere, gli occhi sono fissi, immobili.
«Che hai detto?» chiede.
«Ho detto che paradossalmente…»
«No, no, ho capito che hai detto… intendo dire… è tua?»
«Sì»
«È bellissima»
«Grazie»
«Come ti è venuta?»
«Guardandoti».
Silenzio. Momento imbarazzo. Stacca gli occhi dalla pagina e li fissa nei miei.
«Guardandomi?» chiede, poi sorride.
«Sì. Te l’ho detto. Sento che sei buona. Emani una sensazione buona. Mi ispiri cose buone. Sei buona»
«E pulita?» domanda.
«Sì. Buona e pulita»
«Più pulita di prima?»
«Assolutamente»
«E perché?»
«Perché ti ho leccata tutta!»
«E smettila di fare il porco ho detto!» e via, prende un cuscino e me lo lancia addosso. Poi ride. Ride di gusto. Ride che è bella.
«Sei la mia Safe Zone» dico.
«Safe Zone?» chiede.
«Sì, la mia Safe Zone. La mia Zona Sicura» spiego.
«Suona tipo come una delle tue solite robe zombie… sbaglio?»
«No, non sbagli… ma è una cosa bella. Sei una certezza. Una sicurezza. Meriti la mia fiducia. Sei la Safe Zone»
«Cioè con me ti senti al sicuro dagli zombie?»
«Non solo dagli zombie, ma da tutto»
«Tutto tutto tutto?»
«Tutto tutto tutto»
«Fico! Sono la tua Safe Zone pulita!»
«Sei pulita perché sei uscita dal fango. Il fango s’è preso tutte le cose sporche che avevi addosso e ti ha lasciato i suoi scarti, quelli di cui poteva liberarsi. Tutta la roba che era di troppo, l’ha lasciata a te»
«E perché?»
«Per liberarsene. La pozzanghera ha acquisito il tuo sporco, fresco, nuovo, forte e doloroso e ti ha ceduto il suo, usato, vecchio, raggrinzito e puzzolente, ma viene via che è una meraviglia, te lo assicuro. Basta farlo seccare un po’»
«E che senso ha? Perché avrebbe dovuto lasciarmi qualcosa di suo?»
«Perché altrimenti sarebbe esplosa. Non può contenere tutto lo sporco del mondo, soprattutto se stiamo parlando di una piccola pozzanghera di fango»
«Mh. No, credo sia una grossa pozzanghera»
«Beh, anche le grosse pozzanghere hanno un limite di sopportazione. Anche loro accumulano esperienza, sporco, roba da buttare e dopo un po’ devono svuotarsi»
«E dici che la roba che aveva da buttare l’ha data a me in cambio della mia?»
«Certo bella mia… il fango ti ha dato l’esperienza. Tutti quegli scarti che ti sei tolta poi in doccia, tutto quello sporco raggrinzito che ti ha sporcato i vestiti… ti hanno fatto capire che non restano per sempre, che vanno via con un po’ d’acqua. Basta cadere nello sporco e avere la forza di uscire e lavarsi. Ripulirsi».
Posa di nuovo velocemente gli occhi sul fumetto ma li toglie subito e li punta nuovamente contro i miei.
«E… io ti ho ispirato tutta questa storiella?»
«Assolutamente»
«Wow. Forte» sussurra, poi chiude il fumetto. Mi guarda. «Sai… ora che me lo fai notare… è bello essere puliti». Sorrido. «Ti senti un po’ più buona adesso?» chiedo. Mi si avvicina lentamente poi si ferma di botto, il suo naso che sfiora il mio.
«Non so come mi sento sinceramente ma sì, forse un po’ più leggera. Pulita. Forse anche buona»
«Visto? Basta farsi una doccia dopo una bella nuotata nel fango» dico. Lei ride. «Probabilmente, sì» dice. «Ma il mio è uno sporco forte, di quelli incrostati per bene. Credo che farò un’altra doccia». «Bene» dico, «ti aspetto qui allora!».
Si alza. È nuda, davanti a me, in piedi sul letto. Mi guarda dall’alto. Sorride. Salta giù dal letto e si dirige verso il bagno poi si ferma di colpo. La sento prendere fiato. Sta per dire nuovamente qualcosa di importante. Anzi, di importantissimo, perché fa una lunga pausa, volta leggermente la testa verso destra, fa un ghigno strano e…
«Pensavo… in due lo sporco viene via meglio… giusto?».

Andrea Abbafati

Immagine di copertina di Martina Greco

 

Il bicchiere di vita in questa birra di merda

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Novembre, ore 23.00. Esterno. Dal pub poco distante da noi esce musica house, dance… non so bene, non seguo il genere. So solo che fa “bum bum bum”. Ho gli occhi chiusi, mi lascio cullare dal silenzio rotto dalla musica assordante e dal sapore della birra fredda, poi c’è lei, al mio fianco. Sento la sua presenza, il suo sguardo, il suo respiro.
«Terra chiama Luna, Terra chiama Luna… Luna mi ricevi?».
Apro gli occhi. Lei mi guarda sorridente. «Ma buongiorno» dice. «Mpf», le rispondo. «Sei bloccato? Che hai?» domanda. «Niente, niente. Fa freddo» rispondo. Mi si avvicina, mi mette il braccio sinistro lungo le spalle e mi stringe a sé. «Se vuoi ci spostiamo dentro, il pub è pieno ma un posto lo troviamo sicuro» propone; «no macché, va bene qui. Adesso sento caldo» dico. Lei ride, poi poggia il bicchiere di birra quasi vuoto (o quasi pieno) sulle labbra e beve. Faccio lo stesso, anche se il mio di bicchiere è decisamente più quasi vuoto (o quasi pieno). Improvvisamente mi viene un’idea, stacco il bicchiere dalle labbra, mando giù la birra gelida e dico: «il bicchiere di vita in questa birra di merda». Lei smette di bere e mi guarda accigliata: «eh?». «Il bicchiere di vita in questa birra di merda» ripeto. Lei guarda il bicchiere poi dice: «se la birra fa schifo la finisco io… a me piace». Silenzio. «Ho avuto un’idea» dico. Lei capisce: «non farai come l’altra volta a lavoro che sei partito col furgone vuoto perché avevi capito come finire una delle tue storie eh?» e scoppia a ridere. Sbem. Colpito in pieno. Orgoglio ferito. «So che non sembra, ma non sono così rincoglionito: imparo dai miei errori» dico con una punta d’acido piuttosto evidente. «E come avresti risolto la cosa per non ritrovarti licenziato un giorno di questi?» chiede lei curiosa, col sorriso furbetto sempre stampato in faccia. «Comincio a pensare solo dopo aver caricato tutto. Niente pensieri, storie e idee dalle tre e trenta alle cinque del mattino e dalle dodici alle dodici e trenta del pomeriggio» dico. «Ottimo. E ci riesci?» chiede curiosa. «No» rispondo con amarezza, «ma ci provo con abbastanza impegno, tutti i giorni». «Non male, cowboy, non male!» esclama, mi dà un colpetto sulla spalla col pugno sinistro mentre riprende a bere la birra, che finisce. «Senti, vado a prenderne un’altra… tu la vuoi?» mi domanda. Guardo la birra, porto nuovamente il bicchiere sulle labbra e verso il contenuto in bocca, poi mando giù. «Sì, grazie» dico. «Sempre la stessa?». «Sempre la stessa». Prende il mio bicchiere vuoto e va, entra nel pub. Resto solo. Silenzio e musica. Solo silenzio e musica. Dicono che quando uno muore vede tutta la sua vita passargli davanti. Sto forse morendo? Adesso? Vedo tutto. Le mattine fredde a far colazione con lei, con gli amici. Le serate gelide a baciarsi, mezzi nudi nel parcheggio che la macchina è troppo piccola. I progetti fatti, i fogli di carta scritti. Chi se ne è andato. Chi è rimasto. Chi rimarrà. La palestra. La scuola. Il lavoro. I colleghi che ti offrono il caffè. I tatuaggi. I ‘grazie’. Le lacrime. La saliva sulle labbra. I battiti che aumentano.

I battiti che aumentano.

Apro la bocca.

Vado a tempo e parlo.

Vado a tempo.

Parlo.

Respiro forte, vado a tempo e parlo:
«Le cazzate che faresti per dimostrare ‘sta cosa ti uccideranno. I fremiti, il sudore, le notti in bianco, la musica rap nelle orecchie, le lacrime e le ansie che bruciano. I chilometri che faresti per dimostrare questo amore, i film che guarderesti per sopprimere questo orrore. La roba che scrivi, che c’hai da fa, la gente che ti dà retta. Le notti in bianco, il bicchiere di birra notturno e la corsa il giorno dopo. La puzza di polvere sotto il naso, le foto da modificare, le locandine fatte in casa con i pixel che prendono vita. Le imprecazioni, i ricordi, i curriculum sopra e sotto i copioni scritti e cestinati. La roba che scrivi, che c’hai da fa. Le notti in bianco, le lei dimenticate ma manco tanto, la tastiera vecchia che scricchiola, l’aria pesante che puzza, la guerra che fuori gioca a nascondino, la gente che ti dà retta. Il cappuccino alla mattina con gli altri, il caffè subito dopo, le gomme da masticare per dominare l’ansia, che non è precisamente ansia da prestazione. È ansia di essere all’altezza. L’ansia. I caffè, la gente che ti dà retta. Il bicchiere di vita in questa birra di merda. La roba che scrivi, che c’hai da fa, la gente che ti dà retta, il sipario vecchio che profuma di nuovo, gli occhi che ti guardano, la gente che entra e esce, la fiducia che non c’hai ma che ti danno loro. Il bicchiere di birra notturno e la corsa il giorno dopo. Il sipario vecchio che profuma di nuovo».
Silenzio. Anche la musica sembra fermarsi. Sento una presenza dietro di me. È lei.
«Dovresti bere ogni sera se l’alcol ti porta a partorire queste cose»
«No, non sempre. Oggi è una serata fortunata, forse»
«Avresti il permesso di essere licenziato tutte le volte che vuoi. Dovresti camparci con questa roba, sai?»
«Camparci? Ma mi hai visto?»
«Ti ho visto, ti ho visto. Il tuo problema è che metti radici, sempre detto io»
«Radici? In che senso?»
«Tieni, prendi la birra che ti spiego. Questo giro lo offro io» e si siede sul muretto. Intanto la musica ricomincia. Io sorseggio la birra in piedi, gli occhi su di lei, ma lei sta zitta e mi guarda, quindi mi siedo e lei comincia a parlare. «Metti radici. Ti aggrappi alle cose poi, appena queste giustamente e per natura cambiano o cessano di esistere, resti bloccato, spiazzato. Come con le tue ex. Mi hai detto che hai buttato tutti i loro regali, no?». La guardo. È una trappola? «Certo» rispondo, «ma che c’entra adesso?». «C’entra eccome, bimbo. Credi in quello che fai, ma fallo per te, non per gli altri. Per te. Punto» dice, poi beve un sorso di birra.
Ha ragione.
«Ok, allora da oggi basta festeggiare per gli obiettivi raggiunti. Hai ragione. Basta sorrisone soddisfatto, basta entusiasmo e basta restarci male per le cose quando vanno male o comunque non come vorresti» dico. Lei smette di bere. «Non hai capito una ceppa. Non dico di smettere di provare emozioni, porca vacca. Dico che dal principio devi fare una cosa per te, non per gli altri. Capito? È normale poi rimanerci male. Devi provare a non mettere radici. A sentirti libero, non legato a qualcosa o a qualcuno, altrimenti non vivi più. Le persone cambiano, gli eventi cambiano. Tutto cambia bimbo. Anche tu. Quindi perché aspettarsi l’alba di sera?» e continua a bere. Fisso la birra come uno che ha appena ricevuto una botta in faccia. Rifletto. Perché aspettarsi l’alba di sera? «Non pensarci troppo», dice, «non ci guadagni niente. Almeno stasera non pensarci. Bevi e basta, stavolta non ti faccio la paternale» dice lei. «Capirai, ‘sta birra farà sì e no cinque gradi» preciso io. «Allora non ubriacarti di birra, ma di libertà. Di silenzio. Lo senti il silenzio? Ecco. Azzera tutto. Spegni il cervello. Svuota tutto. Bevilo ‘sto bicchiere. Bevilo tutto. Vedrai che starai meglio. Com’era? “Il bicchiere di vita in questa birra di merda”» e mi bacia, poi alza il bicchiere: «cin cin!».

Andrea Abbafati

In ritardo

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Squilla il cellulare. È lei. Accetto la chiamata, poso l’apparecchio all’orecchio e sto zitto.
«Oh» dice
«Oh» rispondo
«Beh?»
«“Beh” che?»
«Ma come “beh che”?»
«Eh, beh che?»
«Sei sveglio?»
«Ma certo che sono sveglio, ti sto parlando»
«Sì, nel senso, sei sveglio? Cioè, sei sveglio da un po’ o ti ho svegliato io?»
«Mi sono svegliato poco fa, tranquilla, non mi hai svegliato»
«Ah. Peccato»
«Ma come peccato?»
«Hai dormito dodici ore. Sai che spasso sarebbe stato svegliarti? Rincoglionito al massimo»
«Vaffanculo»
«Ah, ci siamo svegliati male, Oxford?»
«Ho dormito dodici ore perché sono a riposo e ieri ne ho passate ventiquattro sveglio»
«Lo so, cretino. Ti stavo prendendo in giro»
«Ok»
«Ok».
Silenzio. Sento che prende fiato dall’altra parte della cornetta

«Rosicone come pochi» esclama all’improvviso
«Non sto rosicando!»
«No, assolutamente»
«No infatti, assolutamente»
«Bene allora, meglio»
«Sì, meglio».
Di nuovo silenzio.

«Rosicone potentissimo»
«Oooooh Madonna, ma che è oggi?»
«Oggi è giovedì, signorino, ed è precisamente mezzogiorno»
«Lo so che giorno è, so anche che ore sono»
«Bene»
«Ancora con ‘sto “bene”?»
«Cosa vuoi che ti dica? Se vuoi tolgo il “bene” e dico altro»
«Ecco, sì, di’ altro»
«Perfetto, allora dico: sei in ritardo, coglione, dovevamo vederci alle dieci e trenta. Va meglio così?».

Porca puttana.

«Porca puttana»
«Eh, esattamente»
«Scusa, me ne sono totalmente dimenticato. Porca puttana»
«Dove sei ora?»
«A casa. Precisamente sul letto, guardavo il vuoto fino a qualche secondo fa ma mi sto già spogliando, mi lavo, mi vesto e sono da te»
«Dobbiamo vederci in piazza»
«Eh, lo so, tu sei già lì no?».
Silenzio.

«Oh? Tu sei in piazza, no?»
«No… sono a casa»
«Ah, va beh immagino tu sia tornata a casa quando hai capito che non sarei arrivato. Giusto»
«No, sono a casa. Sono ancora a casa. Non sono proprio uscita».
Silenzio. Capisco.

«Ho paura di chiederti perché» dico
«Eh…»
«Perché?»
«Ma che ti importa del perché? Meglio no? Mi vieni a prendere e andiamo insieme!»
«Perché?» insisto.
Silenzio, di nuovo. Sento che trattiene il respiro.

«Perché sapevo che avresti tardato. Di parecchio. Come sempre. Certo, non pensavo di dover aspettare un’ora e mezza, son sincera».
Sbem. Steso.

«Scusa», «scusa», all’unisono, due scuse.
«No, scusa tu», «no, scusa tu», all’unisono, di nuovo due scuse.

«Senti, ti chiedo scusa io del ritardo e dei ritardi passati. T’ho detto, mi lavo, mi vesto e corro da te, ti prendo e andiamo insieme». Silenzio. «Ti sei offeso?» mi domanda, «ma di che?» rispondo, «hai semplicemente detto la verità. Faccio sempre ritardo. Sempre oh, capitasse una volta che riesco a calcolare i tempi». Silenzio. Troppo silenzio. Se la conosco bene sta preparando una battuta delle sue. «Beh, a letto i tempi li sai calcolare benissimo. Mai lamentata». Appunto. «Ma come te ne esci?» chiedo, «dai, scemo, stavo scherzando, era una battutina per scaldare ‘sto gelo che si è creato», «niente gelo, per carità, hai ragione. Un’ora e mezzo di ritardo è imperdonabile. Oh, metto vivavoce, mi do una sciacquata», «Ok».

Faccia, mani, piedi, collo e tutto. Lavo i denti, indosso qualcosa velocemente poi mi reco in cucina. Mi accorgo della cazzata fatta e impreco. Lei sente.

«Oh»
«Eh»
«Che è successo? Sbattuto il mignolo?»
«Macché. Mi sono lavato i denti prima di fare colazione»
«Senza parole»
«Oh senti, questa è la fretta. Mi stai mettendo pressione»
«Ah! Io ti metto pressione adesso?»
«Ma dai, sei lì al telefono che canticchi quel tormentone maledetto che odio! Guarda che sento tutto eh!»
«Oh, se vuoi attacco senza problemi»
«No macché, mi fa star bene sentirti presente».
Silenzio.

«L’hai detto» dice lei
«Sì, l’ho detto» ammetto
«Ma allora non ti sei svegliato col rodimento di palle! Che teneroso che sei»
«Eh, lo so, sono bravo a farmi amare».
Apro il frigo e scarto il primo yogurt che trovo, poi metto a fare il caffè mentre il suo respiro dall’altro capo del telefono mi rassicura. «Senti piuttosto, come è andata ieri la cena con gli amici?» domanda lei, «tutto ok. Stavamo in un bel posto in montagna, a casa di un amico, ti sarebbe piaciuto», «cosa? Il posto o l’amico?» domanda lei, io sto zitto. «Sto scherzando, deficiente», «lo so, simpatia. Comunque mi sei mancata. Abbiamo fatto mezzanotte, volevo chiamarti ma mi avevi detto che avevi sonno, quindi ho lasciato stare», «lo sai che puoi chiamarmi quando vuoi, vero?», «lo so, ma so anche come diventi quando vieni svegliata mentre dormi beatamente». Silenzio, la sento ridere silenziosamente, «hai ragione» dice. «Comunque ho fatto una foto al panorama che si vedeva dalla piscina. Tra poco te la mando. Sai cosa? Ci vediamo sempre, ma ieri mi sei proprio mancata», la sento che trattiene forzatamente una risatina orgogliosa, «mi mancava vederti, poter contare su di te e poi, oh, mi mancava anche bere con te, ubriacarci insieme e buttarci in piscina come due coglioni» e qui scoppia a ridere di gusto, «mai fatto nulla del genere, nego tutto!» esclama divertita. Finisco lo yogurt, verso il caffè nella tazza e lo bevo senza zucchero, tutto d’un fiato, poi mi ricordo di una cosa: «oh, dopo devo farti sentire un pezzo nuovo», «ah sì? Di chi è?», «degli 883, ultimamente la loro discografia gira spesso nello stereo della macchina», «aspè, ma gli 883 non si sono sciolti tipo nel 2002?», «sì mi pare di sì», «embè? Un pezzo “nuovo”?» ride, «e va beh, io ieri l’ho ascoltato per la prima volta, per me è nuovo» e scoppia a ridere di nuovo, stavolta seguita di cuore da me, «C-O-G-L-I-O-N-E-E-E-E!» urla tra una risata e l’altra e io vorrei tanto baciarla, perché mi fa stare bene. «Che poi, 883. Periodo pesante?», «Pesantino. Alterno 883 a Battisti e Zucchero, per farti capire», «Madonna» esclama lei, stupita.

«Oh, io ho fatto, sto per partire»
«Oh, mi raccomando, niente ritardo oggi eh»
«Sei veramente stronza. Ti piace rigirare il coltello nella piaga eh?»
«Non sai quanto. Godo nel farlo!»
«Quasi quasi ti lascio a piedi»
«Provaci. Devi solo provarci, ti raggiungo e ti prendo a calci nel»
«Va bene ho capito» la blocco io, «ti vengo a prendere»
«Bravo signorino. Oh, mi raccomando, t’aspetto. Testa leggera eh»
«Ci provo belle’, ci provo»
«Vedi di riuscirci. E sbrigati che devi farmi vedere la foto e sentire la canzone. Ma vai piano»
«“Sbrigati ma vai piano”, certo»
«A tra poco, scemo»
«Arrivo, scema».

Parlare del nulla, sentirsi meno soli, ridere di gusto, che tutto va una merda nel mondo e io mi prendo cura del mio respiro e del suo. Dei respiri di chi mi vuole bene. Chiudo tutto. Spengo tutto. M’aspetta lei. Scusate, non aspettatemi, anche oggi come sempre sono in ritardo.

Andrea Abbafati

La sindrome del bagnante

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Guardo l’orologio del furgone: segna un’ora avanti, quindi tecnicamente sono le ore precedenti rispetto l’ora segnata sullo schermo. Sono in ritardo, tanto per cambiare. Davanti a me la fila ferma di macchine in attesa che passino i supereroi a due ruote: gara ciclistica in corso, tutto bloccato. Di domenica mattina, sotto il sole cocente nel punto preciso in cui non c’è ombra manco a pagarla.
Ho già dimenticato l’ora ma evito di guardare l’orario sbagliato dello stereo: è una giornata di merda e come tale non ha orari. Lo sanno tutti. Quando una giornata inizia male non ha senso guardare che ora è perché il tempo si ferma e dura più a lungo, non finisce più e il momento del riposo non esiste, quindi tanto vale continuare a non guardare in che fascia oraria del giorno mi trovo.
Ho poche ore di sonno sul groppone e non riposo decentemente da troppo tempo, mi bruciano gli occhi, ho fame e non ho neanche fatto colazione. Ho un giramento di coglioni non indifferente. Da record. Mi guardo attorno sperando si materializzi improvvisamente un qualcosa, una via di fuga, un motivo per togliermi la divisa di dosso e buttarmi a capofitto in qualche avventura senza pensare ad un cazzo. Troppo volgare. A niente. Senza pensare a niente. La fila comincia a districarsi e improvvisamente mi squilla il telefonino.
È lei. Rispondo. «Oh». Silenzio. «Oh» ripete lei. «Beh?» chiedo io, «Che è successo?», «ma che risposta di merda è “oh”? Io ti chiamo e tu mi rispondi “oh”?» dice lei con quel tono magico, poetico e dolce che mi ricorda quei film horror in cui già al primo minuto schiatta qualcuno. È incazzata. Pure lei. «Scusa» mi riprendo subito io, «è che sto fermo in mezzo al traffico, aspetto che i principi in bicicletta decidano chi deve vincere la gara», intanto le auto davanti cominciano a muoversi quindi mi accingo ad avanzare lentamente. «Ah, capito» butta giù lei, «tra quanto stacchi?», «sto tornando ora per partire con il secondo giro, faccio giusto in tempo a prendermi un caffè da qualche parte penso», «ottimo» dice lei, «fermati al prossimo bar, sono dietro di te». SBEM. «Che?» domando io e lo sguardo mi va automaticamente sullo specchietto laterale sinistro e la vedo: lei, che lampeggia come una matta facendo smorfie con la bocca. Mi esplode il cuore. «Avevo bisogno di te, bella mia» sussurro più a me stesso che a lei, «eh? Che hai detto?» chiede lei, «niente… imprecavo contro i ciclisti. Senti appena arriviamo al bar ci fermiamo, ok?», «ok, tesssssoro» urla lei e lo sguardo mi torna allo specchietto e posso guardarla sfoggiare la sua bella lingua rossa con sguardo da smorfiosa.
Finalmente la strada si libera, avanzo per un po’ con lei al seguito, poi svolto a destra e mi fermo davanti ad un piccolo baretto della zona. Parcheggio, scendo e chiudo il furgone, lei è stata più veloce di me e mi aspetta in piedi, poggiata alla sua auto. «Buongiorno scemo!» dice con la grazia di una che riesce in modo tremendamente facile a superare un’incazzatura potente. Mi avvicino e faccio per abbracciarla ma lei mi ferma con una mano sul petto e mi guarda attentamente negli occhi: «stai incazzato nero. E sei stanco» dice scrutandomi attentamente, io sorrido stupito… volevo solo abbracciarla. «Volevo solo abbracciarti» ammetto, «perché devo essere sempre quello incazzato e stanco?» domando e lei risponde immediatamente con un «uff». “Uff”? «Cominciamo davvero con le domande complesse alle undici di mattina senza neanche aver preso un caffè?». Giusto… le undici; l’orologio segnava le dodici meno un quarto, quindi erano le undici meno un quarto, ovviamente quindici minuti dopo sono le undici, logico.
Decido di accantonare la questione “uff” e la accompagno nel bar. Il barista ci chiede cosa vogliamo, lei ordina due caffè, io sto zitto e la guardo. Non ho mai creduto nell’amore, nella bellezza fine a sé stessa, ma lei mi completa. È talmente spontanea, talmente piena di bene che non capisco come facciano gli altri a non innamorarsene.
Mi sta guardando. «Forza. Caffè ordinati, adesso possiamo affrontare i discorsi seri» dice. Comincio. Sono un fiume in piena, sicuramente adesso le dirò tutto quello che mi circola nella testa e nel cuore, cioè «niente». Niente? «Niente?» domanda, «ma come niente? Ti ho guardato imprecare contro i ciclisti quando non sapevi che ti stavo osservando. Sono anche quasi sicura tu ne abbia mandato a fanculo qualcuno… e adesso non hai niente?». Ops. Beccato. Prendo fiato. «Senti, non voglio incazzarmi, ok? Non devo incazzarmi, va bene? Ultimamente mi è stato fatto notare che mi incazzo sempre. Autocontrollo, ecco cosa mi serve. Devo riuscire a gestire la rabbia. Calmarmi. Devo prendere le cose più alla leggera, tutto qua». Silenzio. Arrivano i caffè ma lei sembra non accorgersene: mi guarda. «Quindi non puoi parlarne con me?». Steso. «Ma certo che posso parlarne con te… che c’entra? Solo che adesso volevo provare a calmarmi da solo, ad affrontare la cosa tra me e me ecco, tutto qua». «Mandando a fare in culo i ciclisti» sottolinea lei, «no… no! Non ho mandato a fare in culo nessuno!» mento io ma niente, lei scoppia a ridere. Sbuffo, so già che durerà per molto, prendo il caffè, lo condisco di dolcificante e bevo, lei fa altrettanto con lo zucchero di canna ma aspetta che la risata le passi, poi beve tutto di un sorso.
«Per una volta vorrei sentirmi come Cannavaro nel 2006 quando ha alzato la coppa» butto lì.
Silenzio. Lei posa lentamente la tazzina sul bancone, gli occhi spalancati fissi su di me: «tu» sussurra, «tu che parli di calcio? Ma soprattutto… tu che hai visto i mondiali del 2006?» domanda esterrefatta, «ma che c’entra?» mi giustifico, «non sto parlando di calcio, uno, e due: certo che li ho visti i mondiali. Ho anche festeggiato e per poco non infilzo uno con la bandiera quando Grosso ha segnato il rigore» ammetto sapendo già quale sarà la sua reazione… e infatti, ride. Ride tanto, porta le mani alla bocca e si dondola come una scema. La solita esagerata. «Seguivo ancora il calcio da ragazzino… ma adesso non è questo il discorso, sono serio!» esclamo offeso, cercando di riportare ordine. Lei capisce e mi guarda seria ed interessata: ora ho di nuovo la sua attenzione. «Dicevo, vorrei sentirmi come lui. Come Cannavaro in quel preciso istante. C’hai mai pensato a come devono essersi sentiti gli Azzurri? Secondo me hanno avuto la certezza assoluta di essere riusciti in quello che dovevano fare. Hanno vinto il mondiale, porca puttana. Cannavaro ha sollevato la coppa. S’abbracciavano tutti. L’Italia intera festeggiava con loro. Ecco, per un solo istante vorrei sentirmi così». Lei mi ascolta attenta, io continuo. «E come Grosso. Porca vacca, ma l’hai visto l’autocontrollo di Grosso al rigore decisivo? Io sarei morto. E avrei sicuramente sbagliato». Lei sorride, io mi fermo a pensare. «Non lo so che c’ho. Sono solo contento di poterne parlare con te», «e io sono felice di poterti ascoltare, scemo» risponde lei con un sorriso bellissimo, «e tu potrai essere Cannavaro e Grosso messi assieme ogni volta che vorrai. Ne hai tutte le capacità e soprattutto la grinta. Hai la grinta, cazzo, ma non te ne rendi conto» conclude. La guardo: «ho la sindrome del bagnante» confesso. Mi guarda, ora è confusa, «la sindrome di che?», domanda. «La sindrome del bagnante» ripeto io convinto, poi mi accingo finalmente a spiegare: «ieri sono andato in piscina con gli amici, ricordi? Ecco, tolta l’ansia di mettermi a torso nudo davanti a tutti ma va beh, ‘sta fissa che ho la conosci. Ecco, tolta l’ansia, sai la prima cosa che ho fatto qual è stata?» lei scuote la testa curiosa, «ho guardato il bagnino. Cioè, ho pagato l’entrata della piscina e neanche mi son messo la crema solare che subito ho guardato il bagnino», «e perché?» chiede lei. Mi preparo al peggio: «perché c’ho la sindrome del bagnante, te l’ho detto. Avevo paura di non essere fisicamente alla sua altezza. ‘Sti cazzo di bagnini hanno i fisici da supereroi, e ogni volta che uno va al mare deve subire il confronto. La sindrome del bagnante: sentirsi inferiori a qualcuno in un contesto comune». Finisco di spiegare e resto a guardarla in attesa di una sua risata fragorosa ma lei resta stranamente in silenzio, gli occhi fissi su di me, poi apre leggermente la bocca e dice: «ha senso». SBEM. Proseguo. «Ecco, ho la sindrome del bagnante. In ogni contesto. Si può chiamare anche “sindrome di bassa autostima” se vogliamo, magari rende di più. Mi sento a disagio in mezzo alla gente, perché so che risulterò sempre l’anello debole, quello che non sa e non può risolvere le situazioni. Sarò sempre un comune bagnante, non un bagnino. Sarò il babbano di turno, non il mago che va ad Hogwarts. Sarò sempre il civile che guarda i supereroi salvare il mondo e magari rischia anche di essere schiacciato da un grattacielo che crolla». Finisco di parlare e mi accorgo di avere la bocca allappata quindi ordino un bicchiere d’acqua del rubinetto e pago i due caffè, mentre lei sta zitta a pensare, stavolta con lo sguardo fisso sul pavimento.
Acqua bevuta, conto pagato, lei ancora che guarda per terra, le faccio segno di uscire e mi segue. Appena metto piede fuori mi manca il respiro a causa del caldo che quasi vorrei mandare a fare in culo il lavoro, i ciclisti e tutto il resto e tornare di nuovo nel bar per restarci fino a sera con lei, che adesso mi guarda con quegli occhioni bellissimi e quella bocca che è solo da baciare. Respiro. Sento il suo respiro. Le carezzo i capelli con la mano e sto per baciarla ma lei comincia improvvisamente a parlare, come un fiume in piena: «siamo due Babbani bellissimi che se ne fottono delle scope volanti e vanno in alto anche senza. Due civili che si vogliono bene, che si amano e lottano giorno dopo giorno contro i super cattivi senza avere i super poteri. Siamo due bagnanti che non ci penserebbero due volte se dovessero vedere qualcuno in acqua in difficoltà e correrebbero in soccorso, anche senza saper nuotare», vorrei abbracciarla ma mi impongo di farla finire. Deve dirmi tutto quello che ha dentro, perché solo lei può svoltarmi la giornata. «E sì, tu ti incazzi sempre, ma perché ci tieni. Tieni alla gente, alle cose che fai, ci credi. Quindi oh, incazzati. Fai macello, corri per due, tre ore, prendi a cazzotti il muro, ma non tenerti tutta ‘sta roba dentro perché il mondo perderebbe qualcosa di prezioso». Sbuffo, «il mondo non ha bisogno di uno che si emoziona per quello che fa e che si mette a parlare da solo sul furgone quando sta incazzato. Il mondo ha bisogno di gente che sappia prendere la decisione giusta al momento giusto. Certe volte mi sento in colpa ad emozionarmi per quelle che essenzialmente sono stronzate rispetto ai dolori che in questo preciso stanno affrontando molte persone. Boh. T’ho detto, ho mancanza d’autocontrollo e la sindrome del bagnante e insieme sono terribili. Vedo tutto nero e quando sono arrabbiato faccio i macelli. Devo calmarmi. Ah, c’ho pure la sindrome dell’abbandono se proprio vogliamo dirla tutta. A te capita mai? L’ossessione di essere abbandonati… di essere lasciati soli… la paranoia fissa in testa di essere sostituiti con qualcuno?» le domando, ma lei non risponde, si avvicina e mi bacia. La guardo. Mi guarda. «E questo?» dico. «Questo è il premio per essere quello che sei. Prendilo anche come assicurazione nel caso ti abbandonassi… dovrai ridarmelo. Dovrai riconsegnarmi il bacio. Allora mi bacerai e mi innamorerò nuovamente di te. Perché tu sei così. Sei da amare, scemo». SBEM. «Adesso va’, torna a lavoro, che devi salvare il mondo, bagnante coraggioso» dice sogghignando e dandomi un colpetto sul petto. La guardo, sorrido, poi la stringo forte a me. «Allora è deciso: alieni, zombie, maghi oscuri, ciclisti e bagnini maledetti… niente potrà fermarci. E soprattutto io non t’abbandono, e tu non abbandoni me» dico. Lei scoppia a ridere, mi prende il volto tra le mani e mi guarda dentro, nell’anima, come se avesse la vista a Raggi X di Superman: «mai».

Andrea Abbafati

Ho rovesciato il caffè e ho capito tutto

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«Ci fermiamo un attimo?».
Pausa, silenzio, lei si volta e mi guarda: «certo» risponde e allora ok, ci fermiamo un attimo.
Solita corsetta settimanale in due nel bosco, solo che oggi non ci sto né con la testa, né con il fisico. Lei capisce, in realtà ha già capito da quando siamo partiti. «Era ora» butta lì. La guardo, «”era ora” che?». «Era ora che ti fermassi. Mica sono scema, ti vedo e ti sento: stai a pezzi. Che hai, piccolo rottame che non sei altro?» domanda sorridendo mentre io mi trattengo per non rosicare. «Niente» rispondo, «sono solo stanco. Ci sediamo un attimo?», lei non risponde, si sdraia a terra con le braccia sotto la testa e lo sguardo verso l’alto, io faccio lo stesso, sollevato.
«Hai raggiunto il limite, eh?» dice lei improvvisamente. La guardo, capisco, sospiro: «sì». Ammettere una roba del genere per me sarebbe stato impossibile fino a ieri, poi finalmente ho capito. Ripeto tutto, ma stavolta ad alta voce: «ammettere una roba del genere per me sarebbe stato impossibile fino a ieri, poi finalmente ho capito», lei distoglie lo sguardo dal cielo e mi guarda, «spiega» dice. «Stamattina mi sono fatto un caffè prima di attaccare a lavoro, ero talmente distratto che ad un certo punto ho dato una botta alla tazzina rovesciando tutto» lei sorride, io continuo «non puoi capire le imprecazioni, mie e di mia madre che s’è vista la tovaglia nuova diventare un Pocket Coffee». Pausa. Scoppiamo a ridere entrambi ed eccola finalmente… la leggerezza. Lei riprende fiato con difficoltà, poi finalmente fa la domanda importante: «sì, ma che hai capito?», io scelgo bene le parole per risultare il più delicato possibile: «che non possiamo controllare un cazzo di niente» lei sorride mordendosi le labbra, «t’è caduta la corona, Oxford» dice, poi scoppiamo di nuovo a ridere. Toh, eccola di nuovo la leggerezza. «Dai, quando ci vuole ci vuole» mi giustifico io ma lei subito alza le mani al cielo «ma non sto dicendo niente! Anzi ti prego, continua. Mi piace quando fai il filosofo» e sorride di nuovo guardandomi con quegli occhi che, Dio Santo, vorrei vederla guardarmi per sempre. «Non faccio il filosofo» continuo con difficoltà resistendo alla tentazione di perdermi nel suo sguardo, «faccio il realista. Non possiamo gestire un cazzo della nostra vita. Non possiamo scegliere un cazzo, tutto quello che scegliamo è perché ci viene data la possibilità di sceglierlo. Non vogliamo veramente quello che abbiamo, lo desideriamo solo perché ce lo ritroviamo davanti come unica scelta» e qui mi ferma con una smorfia: «quindi non mi vuoi davvero? Non mi hai scelto, brutto rottame che non sei altro?» domanda delusa ma io la zittisco immediatamente mettendole un dito sulle labbra: «a te ti sceglierei ogni volta tutte le volte in qualsiasi altra vita», lei sorride «non si dice “a te ti”», io sorrido «vedi? Non possiamo neanche scegliere come parlare» e scoppiamo a ridere di nuovo per qualche secondo, poi torno serio: «fino a ieri mi dannavo per ogni cosa. Poi stamattina, il caffè. Ho rovesciato il caffè e ho capito tutto. Devo lasciare andare le cose, le persone, godermi le giornate, staccare ‘sto cazzo di internet» e subito lei mi fa l’eco «“staccare ‘sto cazzo di internet”!» e io continuo «mettere la modalità offline quando riposo, mangiare e bere qualcosa con gli amici ogni tanto e ‘sticazzi della dieta» e lei mi fa nuovamente l’eco «“e ‘sticazzi della dieta”!» e io continuo ancora «smetterla di specchiarmi che tanto non mi piacerò mai, smetterla di preoccuparmi per gli altri, smetterla di chiedere sempre se va bene qualcosa o se sta bene qualcuno. Chiedermi se sto bene io» e di nuovo lei con l’eco «“chiedermi se sto bene io!”» e io che continuo imperterrito «e dire qualche “vaffanculo” ogni tanto, qualche “sticazzi”, staccare la televisione, scrivere tanto, leggere fumetti, libri, riposare quando ho turni pesanti, non pensare sempre e soltanto ad arrivare da qualche parte e ogni tanto pretendere, che porca troia mica devo essere sempre io quello che sta ai comodi degli altri», lei stavolta resta zitta, ha capito che sono serio… io guardo in alto, il cielo è limpido e c’è un sole pieno che ci illumina totalmente. Apro leggermente la bocca e parto: «’sticazzi» e spalanco le braccia facendo cerchi di terra e sollevando polvere su polvere, lei scoppia a ridere, «’sticazzi!» e si alza, «’STICAZZI!» urla a squarciagola, «a noi non ce ne frega niente per oggi, abbiamo chiuso!» e salta da tutte le parti, fa le capriole, imita una scimmia, poi si sdraia nuovamente accanto a me, sudatissima. «Sei fuori forma, cocca» stuzzico io, «’sticazzi!» urlacchia lei. Di nuovo la leggerezza, di nuovo scoppiamo a ridere. Mi siedo, nonostante il sentirmi leggero mi sento strano, non pienamente libero. Lei mi imita, sedendosi al mio fianco e poggiando la testa sulla mia spalla. «Ieri volevo mollare tutto. Ho avuto un attimo di tentazione… volevo mandare a fare in culo tutto e tutti. I progetti, la gente che non mi dava retta e quella che voleva tanto spiegarmi che problemi aveva. Mi sentivo stanco, arrivato, senza più limiti. Lavorare, lavorare, lavorare… per cosa? Dove devo arrivare? Che tanto più sembra che faccio passi avanti e più perdo energie a dare un senso a tutto. “Ho chiuso” mi son detto, “mi ritiro”». Pausa. Silenzio. Lei trattiene il fiato: «e poi?» domanda. Poi ho pensato a lei. «Poi ho pensato a te» dico e il suo sguardo si illumina, «a tutti quelli che ho al mio fianco e ai quali amo offrire la birra, regalare braccialetti, scroccare la cena. Ho pensato a tutto e ho capito: ho solo bisogno di una pausa, di uno “’sticazzi” e di un “vaffanculo”, semplice semplice, senza sentirmi male cercando di essere sempre forte, senza sentirmi arrivato, senza dovermi per forza di cose sentirmi indistruttibile» lei capisce, sorride, «stamattina a lavoro mi hanno dato un furgone senza porta USB, quindi ho dovuto sorbirmi le canzonette di merda della radio… e sai cosa? L’ho fatto. Anzi, per un’oretta buona ho anche guidato a stereo spento, senza musica. Ascoltavo i rumori che entravano dal finestrino aperto. Ascoltavo me stesso», «poi t’ho chiamato io» aggiunge lei, «poi mi hai chiamato tu» confermo io. Sorridiamo. «Sei leggero cocco, lo sento» afferma lei, «hai semplicemente bisogno di sentirti così più spesso». Rifletto, annuisco, mi alzo. «Riprendiamo a correre?» suggerisco ma lei mi si para davanti, guardandomi dritto negli occhi: «oh» dice. «Oh» dico. Sorride: «riprenditi, affronta le cose con leggerezza». La guardo: «Leggerezza? Pesantezza casomai», «pesantezza?» chiede guardandomi, «sì, pesantezza, come una roccia». Mi guarda. «Come una roccia?» domanda, «sì, come una roccia» ripeto. Lei sorride alzando le spalle, «come una roccia», io insisto, sempre più convinto: «come una roccia, porca puttana». Lei annuisce, sorride uno dei suoi sorrisi enormi, poi: «oh sì… come una roccia, porca puttana!».
Mi bacia.